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Israele il Popolo Eletto-La comunità apostolica

Israele il Popolo Eletto-La comunità apostolica

di Fratello Yechezkel

La comunità apostolica è l’embrione del movimento allora conosciuto come “nazareni”, perché si riconoscevano come discepoli di Yeshua il Nazareno.
In realtà erano soprattutto discepoli dei suoi apostoli.
Questa assemblea giudeo-messianica oggi è denominata “chiesa primitiva”, ed i suoi aderenti sono chiamati “cristiani”, termini a loro completamente sconosciuti.
Infatti, secondo Atti 11:26, “fu in Antiochia che per la prima volta i discepoli furono chiamati cristiani”, e come si può intendere dal testo greco, furono denominati così non da sé stessi ma dagli altri, ed apparentemente in modo derisorio, come anche oggi certi gruppi sono identificati da altri da una loro caratteristica particolare, o perché seguono un pastore o capo carismatico, o da qualche altra nota distintiva.
Altrettanto la parola tradotta ʹchiesaʹ dovrebbe essere sostituita da un termine più corretto, che è “assemblea”, che corrisponde al termine greco ekklesía ed al ebraico ʹkahalʹ ‒ che è la stessa parola usata nelle Scritture Ebraiche ed è correttamente tradotta come “l’assemblea d’Israele” (kahal Yisrael).
Infatti, nelle vecchie versioni della Bibbia in italiano, così come in inglese ed altre lingue, in Atti 7:38 era scritto: «Questi è colui che nella “chiesa” del deserto fu con l’angelo che gli parlava sul monte Sinai, e con i nostri padri, e che ricevette rivelazioni viventi per darcele»; semplicemente perché la parola greca era stata sempre tradotta ʹchiesaʹ in tutto il Nuovo Testamento, doveva essere così anche in questo caso. Ovviamente, la “chiesa” nei tempi di Mosheh non esisteva, quindi le nuove versioni hanno sostituito il clamoroso errore con la parola adeguata, ovvero, assemblea (o congregazione, adunanza).

Quindi, in questo studio useremo i termini più appropriati quando si farà riferimento al periodo apostolico: ʹassembleaʹ anziché ʹchiesaʹ o ʹnazareniʹ o ʹmessianiciʹ, o ʹgiudeo-messianiciʹ anziché ʹcristianiʹ. Con i termini convenzionali (chiesa e cristiani), s’intenderà invece l’istituzione successiva che si contraddistingue per le notevoli diversità dottrinali da quella ch’era la comunità apostolica originale.

Tecnicamente, le Scritture del Patto Rinnovato incominciano con gli Atti degli Apostoli, in cui si racconta l’inizio di questa assemblea. Tuttavia, è opportuno ricordare che nessuno di questi credenti dell’era apostolica ha mai letto il Nuovo Testamento, il quale non faceva parte delle Scritture che loro leggevano ogni volta che si riunivano, ed il loro unico punto di riferimento come Parola ispirata era la Torah, i Profeti e gli Scritti, ovvero, quello che poi la chiesa ha denominato “Antico Testamento”.
Gli apostoli e, loro discepoli e successori non conoscevano una cosa tale come andare la domenica in chiesa ad ascoltare la lettura dell’Evangelo, ma continuavano ad essere dei Giudei che andavano il Shabat alla Sinagoga per ascoltare la lettura della Torah e dei Profeti e cantare dei Salmi all’Eterno Elohim d’Israele. La fede nel Messia non alterava minimamente la loro fedeltà al giudaismo, né aveva in alcun modo minimizzato la validità delle Scritture Ebraiche, le uniche che essi consideravano Parola dell’Eterno.

Un culto come quelli che svolgono la stragrande maggioranza dei cristiani oggi sarebbe per loro una stranissima forma di promiscuità religiosa in cui si leggono le Scritture ma si praticano dei costumi pagani mescolati con nuove leggi e regolamenti umani. Essi non predicavano l’Evangelo di Yohanan per convertire le persone, ma continuavano a dimostrare qual’era il piano d’Elohim per l’umanità ed annunciare la salvezza per grazia leggendo le Scritture Ebraiche. In altre parole, anche se il Nuovo Testamento non era ancora stato scritto, non era un problema per loro trasmettere il messaggio che Yeshua aveva loro commissionato. Certamente, nessuno si sarebbe mai permesso di dire «questo ormai non è più valido», perché la Parola dell’Eterno non ha scadenza di termini, né limiti nel tempo, né cambiamento di programma, ma è valida per sempre.

Infatti, il canone del Nuovo Testamento non fu definito se non circa un secolo dopo la nascita ufficiale dell’assemblea apostolica, la quale avvenne nella celebrazione di Shavuot (Pentecoste). Per un centinaio d’anni, l’unica “Bibbia” riconosciuta dai fedeli al Messia Yeshua erano le Scritture Ebraiche e gli Evangeli che erano già stati scritti. Le lettere sono state accettate ed aggiunte molto tempo dopo.

La versione più originale del Nuovo Testamento è quella in aramaico, chiamata ʹPeshittaʹ, in uso dalla Comunità Assira, che contiene i seguenti libri nell’ordine indicato:
1)
Evangelo di Mattai
Evangelo di Marqus
Evangelo di Luqa
Evangelo di Yukhanan
Atti degli Apostoli

2)
Lettera di Yakub (Giacomo)
Lettera di Ke’efa (1Pietro)
Lettera di Yukhanan (1Yohanan)

3) Lettere di Shaul:
Romani
1-2Corinzi
Galati
Efesî
Filippesi
Colossesi
1-2Tessalonicesi
1-2Timoteus
Titus
Filemon

4) Lettera agli Ebrei

Come si può notare, a differenza del Nuovo Testamento “greco”, non contiene 2 Kefa, Yehuda, 2 e 3 Yohanan e l’Apocalisse, scritti considerati apocrifi dagli Assiri.
La versione greca, considerata “originale” dalle chiese occidentali, ha un ordine diverso dei libri, collocando le lettere paoline subito dopo il libro degli Atti, seguite da quella intitolata “agli Ebrei” e poi dalle epistole degli apostoli, nel seguente ordine: Yakov, 1-2Kefa, 1-2-3Yohanan, Yehuda e l’Apocalisse.
In questo studio prenderemo considerazione di tutti i libri, compresi quelli non accettati nel canone aramaico –anche se con le dovute riserve perché, infatti, contengono un marcato riferimento a fonti apocrife–. L’ordine non è rilevante, tuttavia, per motivi pratici, conviene studiare il Nuovo Testamento per autori, come segue: (i libri indicati con un X corrispondono a quelli la cui canonicità è controversa)
1)
Evangelo di Matteo
Evangelo di Marco
Evangelo di Luca
Evangelo di Yohanan
Atti degli Apostoli

2)
Lettera agli Ebrei
Lettere Apostoliche:
Yakov (Giacomo)
1Shimon (1Pietro)
X 2Shimon (2Pietro)
X Yehuda (Giuda)
1Yohanan (1Giovanni)
X 2Yohanan (2Giovanni)
X 3Yohanan (3Giovanni)

3)
Lettere di Shaul:
Romani
1-2Corinzî (o 1 e 3 Corinzî)
Galati
Efesî
Filippesi
Colossesi
1-2Tessalonicesi
1-2Timoteo
Tito
Filemon

4)
X Apocalisse

Qui tuttavia seguiremo l’ordine tradizionale conosciuto nelle chiese occidentali, anche se non è puramente casuale che le lettere dette paoline siano state collocate immediatamente dopo gli Atti, lasciando al lettore le lettere generali per l’ultimo posto, nelle quali s’enfatizza principalmente l’ubbidienza alla Torah e molto di meno la “grazia” che viene attribuita alla predicazione di Saulo. Queste lettere, di fatto, non sono citate quasi mai nella maggioranza delle omelie cristiane.

Gli Evangeli sono già stati considerati nello studio sulla persona e l’insegnamento di Yeshua. Seguiremo con il libro degli Atti e poi con le lettere di Shaul, dette “paoline”, che sono in tutto tredici, di cui due ai Corinzi, due ai Tessalonicesi e due a Timoteo. Le epistole dirette ai Corinzi che noi conosciamo sono la prima e la terza, perché tra l’una e l’altra dev’esserci una seconda che è andata persa, e quindi quella che ci è arrivata come “seconda” è in realtà la terza.
C’è da chiedersi, come mai una lettera è Scrittura ispirata, l’altra no, poi quella successiva lo è di nuovo?
Oppure, se anche la seconda era ispirata, perché si è persa?
Sappiamo dall’epistola ai Colossesi (4:16) che anche una lettera diretta ai Laodicesi non ci è pervenuta.
In quanto all’autore della lettera senza destinatari, che poi si è deciso di intitolare genericamente “agli Ebrei”, per molto tempo si è ritenuto che sia stato Shaul di Tarso, detto Paolo, ma le evidenze interne sono decisamente contrarie a tale ipotesi; più avanti vedremo perché.

Grazie al cielo che c’è anche l’epistola di Yakov (chissà come è riuscita a passare la censura dei padri della chiesa?) la quale è stata accettata a malincuore da molti protestanti… Infine, le epistole di Shimon e quella di Yehuda sono molto somiglianti sia nella tematica che nello stile e sarebbe opportuno collocarle in successione continua, anche per non separare quelle di Yohanan dall’Apocalisse, che appartiene allo stesso autore.

Il primo atto degli apostoli fu scegliere un dodicesimo componente, perché l’Iscariota ne era uscito. Perché dovevano per forza essere in dodici?
Che cosa rappresentava questo numero, che persino si faceva una scelta tramite la sorte, un metodo così poco “cristiano”?

In altre parole, perché il numero degli apostoli doveva essere conforme a quello delle Tribù d’Israele? “E la sorte cadde su Mattia, che fu associato agli undici apostoli” (Atti 1:26) ‒ di questo dodicesimo apostolo non se ne parla più, e non sappiamo quale sia stato il suo ministero.
Il suo nome era lo stesso di quello di un altro apostolo, Matteo ‒ nella lingua originale entrambi sono Mattay.
I nomi dei dodici sono, quindi, come segue: Shimon, chiamato Kefa, e suo fratello Andreas; Yohanan e Yakov, figli di Zavdai, soprannominati B’nei-Regesh; Filippos; Yehuda Toma chiamato Didymos; Natan’el Bar-Talmai; Levi figlio di Halfai, chiamato Mattay; Yakov figlio di Halfai (un altro Halfai, o Yakov era fratello di Matteo?); Shimon Zelota; Yehuda fratello di Yakov, chiamato Taddai; e Mattay.
È strano che due di questi nomi, Andreas e Filippos, siano greci; probabilmente gli evangelisti non conoscevano il loro nome ebraico, visto che era comune in quei tempi averne due. C’erano due Shimon –Kefa e Zelota–, due Yakov –ben-Zavdai e ben-Halfai–, e due Yehuda, inoltre all’Iscariota –Toma e Taddai–.

È anche poco, ciò che sappiamo sulla vita degli apostoli. Il Nuovo Testamento riferisce pochissimi dettagli su tre di loro (Kefa, Yohanan e Yakov) e niente sugli altri nove; inoltre ci sono dei documenti storici che ci indicano che almeno altri tre (Natan’el Bar-Talmai, Yehuda Taddai e Yehuda Toma) sono andati nei territori dove si trovavano sparse le Tribù della Casa di Israele, in Assiria, Armenia e India.
È presumibile che anche tutti gli altri siano andati a predicare in terre d’Oriente, perché la loro commissione era di andare prima dalle pecore perdute della Casa di Israele… Infatti, l’apostolo dell’Occidente fu un altro, possiamo dire, il “tredicesimo”, Shaul di Tarso, chiamato appunto, “apostolo dei gentili”.

Leggiamo dunque come avvenne la nascita dell’assemblea dei messianici o dei nazareni:
Atti 2:5 Or in Yerushalaym si trovavano di soggiorno dei Giudei, devoti d’ogni nazione di sotto il cielo. 6 Ed essendosi fatto quel suono, la moltitudine si radunò e fu confusa, perché ciascuno li udiva parlare nel suo proprio linguaggio. 7 E tutti stupivano e si meravigliavano, dicendo: «Ecco, tutti costoro che parlano non sono essi Galilei? 8E com’è che li udiamo parlare ciascuno nel nostro proprio natìo linguaggio? 9 Noi Parti, Medi, Elamiti, abitanti della Mesopotamia, della Giudea e della Cappadocia, del Ponto e dell’Asia, 10 della Frigia e della Pampylia, dell’Egitto e delle parti della Libia Cirenaica, e di quelli che abitano fra i Romani, 11 tanto Giudei che proseliti, Cretesi ed Arabi, li udiamo parlar delle cose grandi d’Elohim nelle nostre lingue». 12 E tutti stupivano ed erano perplessi dicendosi l’uno all’altro: «Che vuol esser questo?» 13 Ma altri, beffandosi, dicevano: «Sono pieni di vino dolce». 14 Ma Kefa, levatosi in piè con gli undici, alzò la voce e parlò loro in questa maniera: «Uomini Giudei, e voi tutti che abitate in Yerushalaym, siavi noto questo, e prestate orecchio alle mie parole. 15 Perché costoro non sono ebbri, come voi supponete, poiché non è che la terza ora del giorno… 22 Uomini Israeliti, udite queste parole: Yeshua il Nazareno, uomo che Elohim ha accreditato fra voi mediante opere potenti e prodigî e segni che Elohim operò per mezzo di lui fra voi, come voi stessi ben sapete, 23 quest’uomo, allorché vi fu dato nelle mani per il determinato consiglio e per la prescienza d’Elohim, voi, per man d’uomini senza Torah, inchiodandolo sulla croce, lo uccideste; 24 ma Elohim lo risuscitò, avendo sciolto gli angosciosi legami della morte, perché non era possibile ch’egli fosse da essa ritenuto… 36 Sappia dunque sicuramente tutta la <Casa di Israele> che Elohim ha fatto e Signore e Messia quel Yeshua che voi avete crocifisso».

Questo è l’inizio ufficiale dell’assemblea dei credenti in Yeshua di Natzaret, nel giorno di Shavuot, il 6 Sivan. Per celebrare la festa giungevano a Yerushalaym degli Ebrei da ogni parte: come risulta ben chiaro dal testo, tutti i presenti erano Israeliti, compresi alcuni proseliti, ossia, Gerim convertiti al giudaismo.

Non c’erano gentili. È interessante il fatto che la fondazione dell’assemblea fu costituita da membri di tutti i paesi dove le Tribù d’Israele erano disperse, e non a caso, l’elenco delle nazioni inizia dai ʹParti e Mediʹ, proprio i popoli presso i quali la Casa di Israele si trovava ancora. Il messaggio di Shimon, che specifica che coloro che uccisero materialmente Yeshua erano uomini ʹsenza Torahʹ (tradotto ʹiniquiʹ, ma le versioni più aggiornate hanno reso il significato più preciso come ʹsenza leggeʹ) è stato fatto Messia per la Casa di Israele. Conviene ricordare che il termine “Casa di Israele” nelle Scritture rappresenta una comunità distinta dalla “Casa di Yehudah”, come abbiamo già dimostrato, perché è fondamentale capire che questo concetto è implicito nelle lettere apostoliche. Tenendo presente che il Nuovo Testamento fu redatto da persone che avevano come unica fonte d’autorità la Torah, i Profeti e gli Scritti, bisogna immergersi nella loro conoscenza per poter interpretare correttamente il messaggio che ci hanno voluto trasmettere.

Atti 3:1 Or Shimon Kefa e Yohanan salivano al Tempio per la preghiera dell’ora nona… 11 E mentre colui teneva stretti a sé Kefa e Yohanan, tutto il popolo, attonito, accorse a loro al portico detto di Shlomo. 12 E Kefa, veduto ciò, parlò al popolo, dicendo: «Uomini Israeliti, perché vi meravigliate di questo?… 18 Ma quello che Elohim aveva preannunziato per bocca di tutti i Profeti, cioè, che il suo Unto soffrirebbe, Egli l’ha adempiuto in questa maniera. 19Ravvedetevi dunque e ritornate, onde i vostri peccati siano cancellati, 20 affinché vengano dalla presenza di Adonay dei tempi di refrigerio e ch’Egli vi mandi il Messia che v’è stato destinato, 21 cioè Yeshua, che il cielo deve tenere accolto fino ai tempi della restaurazione di tutte le cose; tempi dei quali Elohim parlò per bocca dei suoi santi Profeti, che sono stati fin dal principio. 22 Mosheh, infatti, disse: “Adonay Elohim vi susciterà di fra i vostri fratelli un Profeta come me; ascoltatelo in tutte le cose che vi dirà”. 23 E avverrà che ogni anima la quale non avrà ascoltato codesto Profeta, sarà del tutto distrutta di fra il popolo. 24 E tutti i Profeti, da Shmuel in poi, quanti hanno parlato, hanno anch’essi annunziato questi giorni. 25 Voi siete i figliuoli dei Profeti, e del patto che Elohim stabilì con i vostri padri, dicendo ad Avraham: “E nella tua progenie tutte le nazioni della terra saranno benedette”. 26 A voi per i primi Elohim, dopo aver suscitato il suo Servitore, l’ha mandato per benedirvi, facendo ritornare ciascun di voi dalle sue malvagità».

Gli apostoli continuavano a comportarsi da Giudei, andavano al Tempio com’era stabilito.
In questo secondo discorso, Shimon ancora una volta chiama ai suoi ascoltatori “Israeliti”, e parla in modo esplicito sull’identità dell’Unto con cui egli identifica Yeshua di Natzaret:
1) il Messia sofferente della Casa di Israele, il quale rimarrà nascosto fino al tempo della restaurazione di tutte le cose;
2) il Profeta come Mosheh.

Abbiamo già parlato dei due Messia, e Shimon è certo nell’identificare Yeshua con quello sofferente della Casa di Israele, annunciato da Zekharyah 9:9-11, che rimarrà velato ai Giudei fino a quando il Messia della Casa di Yehudah verrà per stabilire la restaurazione di tutte le cose. Quello che Shimon rivela qui, è che si tratta della stessa persona. È interessante il fatto che, di tutti i passi delle Scritture Ebraiche che parlano del Messia, Shimon ha scelto proprio Deuteronomio 18:15-18, dov’è scritto: “Per te HaShem, il tuo Elohim, farà sorgere in mezzo a te, fra i tuoi fratelli, un Profeta come me; a lui darete ascolto! Io farò sorgere per loro un Profeta come te in mezzo ai loro fratelli, e metterò le Mie parole nella sua bocca ed egli dirà loro tutto quello che Io gli comanderò”.
Perché non scelse Isaia 11:10, o Geremia 23:5-6 o 33:15-16, o Yehezkel 37:24-25, o Daniel 7:13-14 o 9:25-26, o Osea 1:11, o Amos 9:11-15, o Zaccaria 6:12-13, o qualche altra profezia che si riferisca specificamente al Messia dei Giudei?
Non ha nemmeno presentato Yeshua come il “lui” di Zaccaria 12:10 (passo che abbiamo già commentato).

Perché identifica Yeshua con “il Profeta come Mosheh”, colui che in Yohanan 1:25 è nominato insieme ad Eliyahu ed al Messia come i tre probabili personaggi con cui intendevano identificare Yohanan il battezzatore?

Quando dice genericamente che i Profeti hanno già annunciato questi giorni, non ci dà alcuna indicazione su quali sono le profezie specifiche: certamente, non esiste alcuna profezia che annunci un rifiuto della Casa di Yehudah al proprio Messia, come pretendono i cristiani ‒ abbiamo letto tutte le Scritture, e non l’abbiamo trovata.

A cosa si riferisce dunque l’apostolo con le sue parole?
Oppure, a chi vanno dirette?

Per saperlo, è necessario capire il contesto sia culturale che testuale, e correggere i termini tradotti in modo ambiguo o errato, anche se questi sono molto popolari: un chiaro esempio di traduzione pregiudicata è ravvisabile nel verso 19, dove nelle versioni più comuni si legge “ravvedetevi dunque e convertitevi”, mentre che la traduzione corretta è “ritornate”, perché essi sono richiamati a ritornare sulla via seguita e tracciata dai Profeti, non a convertirsi ad un’altra fede!

Questo termine ha lo stesso senso di Luca 1:16, che dice: “e farà ritornare molti dei figli d’Israele a Adonay, loro Elohim” ‒ anche questo verso è stato tradotto erroneamente, usando quella parola tanto cara ai cristiani ma tanto priva di senso per i Giudei… Invece, è giusto usarla per esempio in Atti 14:15-16, dov’è scritto: “Uomini, perché fate queste cose? Anche noi siamo uomini della stessa natura che voi; e vi predichiamo che da queste cose vane vi convertiate all’Elohim vivente, che ha fatto il cielo, la terra, il mare e tutte le cose che sono in essi; che nelle età passate ha lasciato camminare nelle loro vie tutte le nazioni”.
Effettivamente, i pagani, che adorano cose vane, devono convertirsi, non li si può chiedere di ritornare sulla via dei loro padri, né dei loro falsi profeti! Infatti, queste sono le vie delle nazioni (i gentili); certamente non è il caso d’Israele. Quando la Casa di Israele s’allontanò dall’Eterno, i Profeti l’ammonivano di ritornare al loro Elohim

Atti 4:1 Or mentr’essi parlavano al popolo, i sacerdoti e il capitano del tempio e i sadducei sopraggiunsero, 2 essendo molto crucciati perché ammaestravano il popolo e annunziavano in Yeshua la risurrezione dei morti… 5 E il dì seguente, i loro capi, con gli anziani e gli scribi, si radunarono in Yerushalaym, 6 con Anan, il sommo sacerdote, e Kayafa, e Yohanan, e Alexandros e tutti quelli che erano della famiglia dei sommi sacerdoti. 7 E fatti comparir quivi in mezzo Kefa e Yohanan, domandarono: «Con qual potestà, o in nome di chi avete voi fatto questo?» 8 Allora Kefa, ripieno dello Spirito Santo, disse loro: «Rettori del popolo ed anziani…»

Questo brano ci illustra chiaramente che coloro che s’opponevano a Yeshua e la sua predicazione erano i sadducei e le famiglie dei sacerdoti, i quali, come sappiamo, erano quelli che avevano usurpato il sacerdozio, non essendo della stirpe dei Leviti come stabilito nella Torah. Anche dai loro nomi non tutti ebraici si può verificare la loro origine. Qui è evidenziato anche il vero motivo per il quale essi s’opponevano sia a Yeshua che ai suoi discepoli: la risurrezione, nella quale i sadducei non credevano. Nel libro degli Atti, infatti, non troveremo i farisei se non dalla parte dei discepoli di Yeshua, compresi quei farisei che non avevano creduto in lui. A conferma di questo, leggiamo in Atti 23:6-9:

Atti 23:6 Or Shaul, sapendo che una parte erano sadducei e l’altra farisei, esclamò nel Sanhedrin: «Fratelli, io sono fariseo, figlio di farisei; ed è a motivo della speranza e della risurrezione dei morti, che sono chiamato in giudizio». 7 E com’ebbe detto questo, nacque contesa tra i farisei ed i sadducei, e l’assemblea fu divisa. 8 Poiché i sadducei dicono che non v’è risurrezione, né angelo, né spirito; mentre i farisei affermano l’una e l’altra cosa. 9 E si fece un gridar grande; e alcuni degli scribi del partito de’ farisei, levatisi, cominciarono a disputare, dicendo: «Noi non troviamo male alcuno in quest’uomo; e se gli avesse parlato uno spirito o un angelo?».

È chiaro che questi farisei non erano seguaci di Yeshua di Natzaret, tuttavia, non consideravano Shaul né i discepoli come predicatori d’un’altra dottrina, né d’un’eresia che si discosti in qualche maniera dal giudaismo che loro professavano.
Abbiamo visto che nel processo contro Yeshua i farisei non presero parte perché esso era illegale, e infatti non sono nominati. In questi casi, invece, i farisei erano presenti, ed hanno votato a favore dei credenti in Yeshua, pur non essendolo loro stessi, perché non trovavano niente di contrario al giudaismo. Il libro degli Atti ci riporta un altro caso in cui i farisei, nel Sanhedrin, hanno deciso in favore dei discepoli:
Atti 5:34 Ma un certo fariseo, chiamato per nome Gamliel, dottor della Torah, onorato da tutto il popolo, levatosi in piè nel Sanhedrin, comandò che gli apostoli fossero per un po’ messi fuori. 35 Poi disse loro: «Uomini Israeliti, badate bene, circa questi uomini, a quel che state per fare… 38 E adesso io vi dico: Non vi occupate di questi uomini, e lasciateli stare; perché, se questo disegno o quest’opera è dagli uomini, sarà distrutta; 39 ma se è da Elohim, voi non li potrete distruggere, se non volete trovarvi a combattere anche contro Elohim».

Gamliel non era un credente in Yeshua, tuttavia, egli difese i discepoli nel Sanhedrin, dov’erano stati portati dai sadducei per essere processati (Atti 5:26-27).

Nel rimanente del Nuovo Testamento, non troveremo altre menzioni dei farisei come gruppo che queste, a parte quelle di un noto fariseo che mai rinnegò la sua appartenenza a questa scuola: Shaul di Tarso.

Fratello Yechezkel

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LA FEDE NELL’ AT

LA FEDE NELL’ AT

La Fede nell’Antico Testamento        

di Giovanni Odasso, biblista

 

La “riscoperta” dell’AT come Scrittura può essere correttamente annoverata tra le acquisizioni più sintomatiche del cammino compiuto dalla Chiesa grazie all’influsso del Concilio Vaticano II. Per capire l’importanza di questo dato è illuminante la nota pagina dei discepoli di Emmaus, nella quale il Risorto “incominciando da Mosè e da tutti i profeti spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui” (Lc 24,27). In realtà, l’insieme dei testi che con espressione poco adeguata siamo abituati a chiamare AT hanno rappresentato, per le prime generazioni cristiane, la totalità delle Scritture. Ad esse solo in una fase successiva fu aggiunta, con uguale dignità, l’ultima parte del “canone cristiano”: gli scritti dei Vangeli e degli “Apostoli”, ossia il NT.


Nel presente lavoro, che si accosta all’AT come Scrittura, si esamineranno, a partire dalla pagina di Is 7, alcune testimonianze significative per cogliere le prospettive con cui il tema della fede è presente nella Torah, nei Profeti e nei Salmi, ossia secondo l’espressione di Lc 24,27, “in tutte le Scritture”.


1. La testimonianza di Is 7,9b 

La prima testimonianza espressiva riguardante la fede è contenuta nel cap.7 dell’opera che porta il titolo canonico di “Visione di Isaia figlio di Amoz” (cf. Is 1,1). Gli eventi narrati rinviano al 734 a. C., quando il re degli Aramei e il re d’Israele si erano coalizzati per spodestare il re Acaz, re di Giuda, e porre sul trono di Gerusalemme un personaggio favorevole ai loro progetti politici. Il profeta Isaia annuncia ad Acaz, che il piano perseguito dai suoi avversari è destinato al fallimento. Dopo l’annuncio assiomatico: “ciò non si realizzerà e non avverrà” (Is 7,7b) il profeta aggiunge la solenne sentenza:

’im  lô’  ta’ămînû  kî  lô’ tē’āmēnû

    
se non accettate la sicurezza certamente non avrete nessuna sicurezza


Nella lingua ebraica questo detto profetico si presenta con una particolare elaborazione stilistica, in quanto è costruito con due forme verbali che derivano dalla stessa radice ’āmēn. Nel suo significato letterale la radice ’āmēn denota “essere stabile, incrollabile”. Presa in senso traslato, metaforico, la stessa radice connota la “stabilità interiore”, ossia la “sicurezza” che l’uomo sperimenta verso la persona nella quale può riporre pienamente la propria fiducia. E’ la sicurezza descritta dal Sal 131, dove l’orante dichiara: “Io sono tranquillo e sereno, come un bimbo svezzato in braccio a sua madre, come un bimbo svezzato è l’anima mia” (v. 2). Il bimbo svezzato gioisce di essere in braccio a sua madre, non perché ha bisogno del latte materno, ma perché desidera gustare la tenerezza rassicurante che gli viene dall’amore della madre.

La forma verbale ta’ămînû, conosciuta come Hifil o tema H della radice ’āmēn, è usata proprio in questo senso metaforico, per cui la prima parte del detto di Isaia si può tradurre “se non accettate la sicurezza”. Il contesto lascia chiaramente intendere che si tratta della sicurezza che viene dalla Parola che il Signore annuncia per mezzo del profeta, parola che contiene una luminosa promessa: “ciò non si realizzerà e non avverrà”.

Anche la forma verbale tē’āmēnû, conosciuta come Nifal o tema N, ricorre qui secondo la sua accezione metaforica e connota la situazione di chi si sente interiormente nella sicurezza. Di conseguenza, la seconda parte del detto isaiano si può tradurre “non sarete nella sicurezza” oppure “non avrete nessuna sicurezza”.
L’affermazione del profeta Isaia appare ora nella profonda ricchezza del suo messaggio. Il detto profetico (’im lô’ ta’ămînû kî lô’ tē’āmēnû) può essere reso nel seguente modo: “se non accettate la sicurezza (che viene dalla parola del Signore; la sicurezza che, in definitiva, è il Signore stesso), non avrete nessuna sicurezza”.

Per il nostro tema, che riguarda “la fede nell’AT”, è importante osservare che la LXX traduce il detto isaiano con l’espressione “se non credete (pisteuete) nemmeno comprenderete”. Al verbo ta’aminû, che significa propriamente “accettare la sicurezza che viene dal Signore”, corrisponde il verbo pisteuete della LXX. Ciò significa che la fede, nell’orizzonte della LXX, è l’atteggiamento dell’uomo che accetta la sicurezza che gli viene dal Signore e dalla sua Parola. Solo in questa accoglienza, in questo “ascolto”,con cui si apre alla Parola di Dio, per aderirvi esistenzialmente, l’uomo trova la sicurezza della propria sussistenza, della propria vita. Ponendo la fede nel Signore in stretta correlazione con la promessa della comprensione, la LXX si muove nella prospettiva teologica della tradizione sapienziale, prospettiva che è sottesa alla canonizzazione della Torah (cf. Dt 4,5-8), e ha ricevuto uno sviluppo sinfonico nel salmo 119. In definitiva, il vocabolario della fede, testimoniato dalla LXX (pisteuo,pistis), si comprende nella prospettiva delineata dal detto isaiano: “Se non accettate la sicurezza, non avrete nessuna sicurezza”.

Per cogliere la profondità di questa affermazione, è importante rilevare che essa, benché si situi in un orizzonte teologico, presenta una struttura che è verificabile anche a livello antropologico. La fiducia, infatti, è un atteggiamento che scaturisce dall’interiorità del soggetto umano. Certamente la fiducia può essere favorita, ostacolata o addirittura soffocata dalle circostanze e dalle persone dell’ambiente in cui si vive, ma se l’uomo non si apre personalmente verso l’altro, percepito come “tu”, non potrà mai uscire dal suo “io” e sviluppare la capacità di costruire relazioni positive, basate sulla reciproca fiducia e sul reciproco impegno. Il detto di Is 7,9b, in questa ottica, suppone implicitamente che l’uomo, come si apre agli altri esseri umani, può aprirsi al Signore e alla Parola della sua promessa.
Questa osservazione mostra chiaramente che la fede non può essere ritenuta una sovrastruttura imposta dall’esterno, e quindi estranea all’essere umano. Essa, al contrario, costituisce il massimo sviluppo, reso possibile dall’intervento divino, delle potenzialità insite nell’uomo creato a immagine e somiglianza del suo Creatore. “La fede – come scrive Abraham Heschel – è un atto dell’uomo che trascendendo se stesso, risponde a colui che trascende il mondo”. In quanto apertura alla trascendenza, la fede implica sempre l’esperienza della liberazione con la quale il Signore impedisce che la speranza dei suoi figli sia ostacolata o, addirittura, soffocata. Essa rappresenta per l’uomo la sicurezza fondamentale della propria vita e della propria storia. Se non accetta questa sicurezza, che viene da Dio e che, in definitiva, è Dio stesso, l’uomo non potrà mai trovarsi nella condizione libera e liberante della salvezza.

Questi rilievi permettono di intravedere che il detto di Isaia contiene un messaggio le cui virtualità, in un certo senso, sono inesauribili. L’affermazione isaiana,come abbiamo visto, suppone la struttura profonda dell’uomo nel suo “essere che si apre verso l’altro” e, nel contempo, afferma che questa struttura antropologica si realizza pienamente quando l’uomo si apre a Dio ed entra in dialogo e in comunione con lui. Di conseguenza, la fede è sempre un evento che si compie nella misura con cui l’uomo, ogni giorno, si lascia raggiungere dal Signore e si apre a lui, lasciandosi interpellare dalla sua Parola. Per questo la fede lungi dal portare l’uomo ad abdicare alla propria umanità ne sviluppa al massimo le incommensurabili potenzialità. La grandezza dell’uomo è direttamente proporzionale alla sua fede.

Alla luce dei precedenti rilievi possiamo raccogliere, in modo sintetico, l’insieme dei dati principali che sono contenuti in questo testo:

(1) La fede è un atteggiamento esistenziale dell’uomo che accetta la sicurezza che viene dal Signore e dalla Parola della sua promessa.
 
(2) La fede, in questa prospettiva, è essenzialmente orientata al futuro della salvezza e, quindi, sviluppa nel credente la sicurezza che i disegni iniqui dell’uomo non potranno prevalere: “ciò non si realizzerà e non avverrà” (cf. Is 7,7b). Ne consegue che la fede è inseparabile dalla fiducia nel Signore, dalla confidenza in lui, dal rifugiarsi in lui, dall’attesa di lui e della sua Parola.

(3) La fede non si risolve unicamente in un atteggiamento soggettivo: essa suppone l’ascolto della parola del Signore, parola che è mediata non solo dal profeta (come si suppone evidentemente in Is 7), ma anche dal culto (come attesta lo stesso racconto della vocazione del profeta in Is 6) e, infine, dalla Torah scritta e dall’insieme di tutte le Scritture.

(4) La fede, di conseguenza, è un evento che avviene all’interno di una comunità e nella vitalità della sua tradizione.

(5) La fede, infine, ha un risvolto esistenziale: accettare la promessa del Signore implica ed esige che il credente sviluppi le scelte esistenziali che sono orientate da questa promessa e coerenti con essa.

Difficilmente si potrà esagerare l’importanza di questo messaggio e l’influsso da esso esercitato nella tradizione di Israele e nella formazione della Scrittura. In realtà, questo influsso raggiunge, attraverso l’opera deuteronomistica, la stessa Torah e, in un certo senso, informa la globalità delle Sante Scritture.

2. La fede nell’opera deuteronomistica  

Con l’espressione “opera deuteronomistica” la scienza veterotestamentaria connota un’opera letteraria che inizia con i primi tre capitoli del Deuteronomio, inserisce subito dopo il Deuteronomio originario contenuto all’interno degli attuali cc.5-28, prosegue con gli ultimi capitoli del Deuteronomio e continua con i libri di Giosuè, Giudici, Samuele e Re. Si tratta di un insieme letterario che fu composto al tempo di Giosia, verso il 620 a.C., e ricevette significative rielaborazioni durante l’esilio babilonese e ancora nel primo periodo postesilico. Un’opera così ampia e plurisecolare è ovviamente maturata in una scuola che ha saputo custodire e sviluppare i grandi ideali del Deuteronomio, ideali che Von Rad ha sintetizzato nella celebre espressione: “un solo Dio, un solo popolo, un solo tempio”. Questa scuola, come si evince dall’esame della sua opera, fu notevolmente vicina anche agli ideali dei profeti, in particolare al messaggio di Isaia e di Geremia.
L’influsso del tema isaiano della fede all’interno della scuola deuteronomistica emerge anzitutto dal fatto che la stessa narrazione di Is 7 porta i segni inconfondibili dello stile e della concezione propri dell’opera deuteronomistica. In particolare, però, due testimonianze di quest’opera meritano di essere qui ricordate per la loro notevole rilevanza. Esse si trovano, significativamente, all’inizio dell’opera (Dt 1,32) e verso la sua conclusione (2 Re 17), venendo a formare un’inclusione che delinea l’orizzonte nel quale il Deuteronomista delinea e sviluppa la propria concezione teologica.

2.1. Il testo di Dt 1,29-35
 

All’inizio dell’opera deuteronomistica, nel primo capitolo del Deuteronomio,l’autore presenta Mosè che, in un solenne discorso, ricorda al popolo l’itinerario percorso dall’Oreb a Qadesh Barnea per esortarlo a intraprendere il camino che lo conduce nella terra promessa. In un primo momento il popolo chiede a Mosè che mandi esploratori, che possano offrire adeguate informazioni sulla situazione che incontreranno. Di ritorno dalla loro missione, gli esploratori portano un messaggio pieno di incoraggiante fiducia: “Buona è la terra che il Signore, nostro Dio, sta per darci” (Dt 1,25). Tuttavia, nonostante questa assicurazione, il popolo non accoglie il comando del Signore e mormora contro di lui: “Voi non voleste andare e vi ribellaste al comando del Signore, vostro Dio; mormoraste nelle vostre tende e diceste: Il Signore ci odia; per questo ci ha fatto uscire dal paese d’Egitto per darci in mano agli Amorrei e sterminarci» (cf. Dt 1,26-27). Le parole che, in questa situazione, Mosè rivolge al popolo sono fondamentali per cogliere il significato della fede nell’ottica teologica dell’opera deuteronomistica: Io vi dissi: «Non spaventatevi e non temeteli. Il Signore, vostro Dio, che vi precede, egli stesso combatterà per voi, come ha fatto insieme a voi sotto i vostri occhi in Egitto e nel deserto, dove hai visto che il Signore, il tuo Dio, ti ha portato come un uomo porta il proprio figlio, per tutto il cammino che avete fatto, finché siete arrivati in questo luogo».
Nonostante questo, non avete creduto nel Signore vostro Dio, che vi precedeva nel vostro cammino per cercarvi un luogo dove piantare le tende: di notte nel fuoco per mostrarvi la via per la quale dovevate andare, e di giorno nella nube. Il Signore udì le vostre parole, si adirò gravemente e giurò dicendo: «Nessuno degli uomini di questa malvagia generazione vedrà il buon paese che ho giurano di dare ai vostri padri» (Dt 1,29-35).


Se si tiene conto del contesto nel quale si trova inserito, il brano appena citato permette i seguenti rilievi:

(1) Colui che crede sperimenta la liberazione dallo spavento e dal “timore” degli uomini. In altri termini, la fede sviluppa la sicurezza che Dio libera i suoi fedeli dalle potenze che si oppongono al suo disegno salvifico.

(2) In questa visuale, il “credere” implica un’apertura al Signore da parte del fedele che confida in lui e custodisce nel proprio cuore una costante fiducia nella presenza liberatrice del suo Dio. La correlazione essenziale tra la fede e la fiducia è evidenziata dal Deuteronomista mediante l’unione del vocabolario della fede alle formule di incoraggiamento: “Non temete”, “non spaventatevi”, “siate forti”.

(3) Il credere implica, inoltre, che il fedele tenga viva la memoria dei numerosi interventi salvifici di Dio. Il ricordo dei prodigi compiuti dal Signore assicura che la fede nella potenza liberante ed elevante di Dio non si basa sull’illusione soggettiva del sentimento, ma sulla verità degli eventi salvifici che caratterizzano l’esperienza “storica” del popolo del Signore e costituiscono l’orizzonte dell’esperienza esistenziale dei credenti.

(4) Il credere, in definitiva, connota l’atteggiamento dell’uomo che trova in Dio la sicurezza del proprio futuro e quindi si apre alla sua Parola, l’accoglie nel suo cuore e la attua nella propria esistenza. Accogliendo mediante la fede la Parola, l’uomo realizza il cammino verso il pieno compimento dell’esodo salvifico di Dio. La Parola accolta, infatti, fa uscire l’uomo dalle angustie della sua schiavitù e lo orienta verso il futuro della promessa, verso la libertà sperimentata nella “conoscenza” della salvezza del Signore.

Inversamente, il testo delinea il carattere negativo dell’incredulità, della non-fede. L’uomo che, per la sua incredulità, non accetta la sicurezza che viene dalla Parola del Signore, rimane prigioniero della propria paura e del proprio spavento. In particolare, nell’opera deuteronomistica la mancanza di fede è considerata con la categoria teologica della ribellione. A causa dell’incredulità l’uomo consuma la propria ribellione e per questo rimane prigioniero della propria schiavitù e incapace di camminare verso il futuro della sua libertà. Ciò che rinchiude l’uomo nella schiavitù del proprio “io” non è l’ascolto della voce del Signore, l’esperienza autentica di Dio, ma è la paura che lo rende ribelle al Signore e alla sua Parola.

2.2. La testimonianza di 2 Re 17,13-14

Un’altra testimonianza significativa della fede è collocata verso la fine dell’opera deuteronomistica, nella pagina di 2 Re 17,7-23. Qui l’autore sospende la narrazione degli eventi dei due regni per sviluppare un’ampia riflessione teologica, che riguarda la fine del regno di Israele e, nel contempo, prepara la narrazione della caduta di Gerusalemme.
La testimonianza, contenuta in 2 Re 17,13-15, recita:

Il Signore, per mezzo di tutti i profeti e di tutti i veggenti, aveva esortato Israele e Giuda dicendo: «Convertitevi dalle vostre vie malvagie, e osservate i miei comandamenti e i miei precetti, seguendo in tutto l’insegnamento (torah) che io ho mandato ai vostri padri, e che ho inviato a voi per mezzo dei miei servi, i profeti».
Ma essi non ascoltarono, anzi resero dura la loro cervice, come la cervice dei loro padri, i quali non avevano creduto nel Signore, loro Dio. Rifiutarono le sue leggi e la sua alleanza, che aveva concluso con i loro padri, e le istruzioni che aveva dato loro;
seguirono il nulla e sono diventati essi stessi nullità.
 

Secondo questa riflessione tutta la storia dei regni di Israele e di Giuda è presentata come un irrigidimento colpevole del popolo verso il Signore (“resero dura la loro cervice”). Si tratta di un irrigidimento che ha perpetuato nel tempo il comportamento dei padri, ossia il comportamento della generazione del deserto, che in questa pagina è descritto come un “non credere”.
Tre rilievi emergono dalla lettura del testo. Anzitutto le varie resistenze del popolo alla Parola, che il Signore aveva fatto risuonare con costante premura per mezzo dei profeti, sono viste come altrettante espressioni della mancanza di fede.

Conseguentemente, la non-fede è intesa qui come chiusura alla parola profetica e, quindi, alla stessa alleanza con il Signore.
In secondo luogo l’incredulità caratterizza non solo la storia del popolo che vive nella terra promessa, ma anche la storia dei padri, ossia la generazione dell’esodo e del deserto. Secondo il deuteronomista, quindi, tutta la storia di Israele, dall’esodo in poi, è attraversata dalla colpa dell’incredulità.
Infine, la fede è compresa nella sua intrinseca connessione con la conversione.
Questa affermazione suppone che Dio offre sempre al suo popolo, e quindi a ogni fedele, la possibilità di uscire dalla sua infedeltà per percorrere il cammino dell’ascolto del Signore nella fedeltà alla sua alleanza.
In questo contesto la non-fede si configura, inversamente, come un rifiuto della conversione e quindi un rifiuto dell’alleanza e degli impegni ad essa inerenti. A questo proposito è interessante rilevare che il testo presenta l’incredulità del popolo con la stessa frase di Ger 2,5: “seguirono il nulla e sono diventati essi stessi nullità”. Il riferimento al testo di Ger 2,5 è una preziosa conferma della concezione deuteronomistica che abbiamo individuato. In realtà, mentre nel testo di Geremia la frase riguarda l’agire dei padri (“quale ingiustizia trovarono in me i vostri padri per allontanarsi da me?”), in 2 Re 17,14 la stessa espressione è riferita all’agire dei “figli di Israele che avevano peccato contro il Signore, loro Dio” (2 Re 17,7).

In definitiva, secondo la redazione finale dell’opera deuteronomistica il peccato che caratterizza il periodo fallimentare della monarchia è quello del quale si erano già resi colpevoli i padri, vale a dire la generazione dell’esodo e del deserto. Questo peccato consiste appunto nella mancanza di fede o, detto con altri termini, nel rifiuto della parola dei profeti, nella rinuncia a seguire il Signore per confidare nei propri idoli. Conseguentemente, l’incredulità si annida nel cuore dell’uomo che rifiuta di convertirsi al Signore.  

Dall’insieme di questi dati risulta che la storia del popolo dell’alleanza è caratterizzata dall’accoglienza del Signore nella fede o dalla ribellione a lui nell’incredulità.

Che questa prospettiva deuteronomistica sia da collegare all’influsso esercitato dalla pagina di Is 7 trova una conferma esplicita nel secondo libro delle Cronache. In quest’opera, che si colloca intorno al 300 a.C., il Cronista testimonia la stretta correlazione del vocabolario della fiducia e dell’incoraggiamento, propri dell’opera deuteronomistica, con il vocabolario della fede, tipico del profeta Isaia. La concezione del Cronista su questo tema appare in modo evidente nell’esteso racconto della vittoria di Giosafat (2 Cr 20,1-30), racconto che non ha parallelo nel libro dei Re e che è stato giustamente definito “un bel esempio di un midrash storico”.
In questa pagina si sente l’eco di motivi familiari al Deuteronomista quando Giosafat si rivolge al popolo con le parole:

“Così dice a voi il Signore: Non temete, non spaventatevi davanti a questa moltitudine immensa, perché la guerra non riguarda voi, ma Dio” (2 Cr 20,15; cf. Dt 20,1-4).

Nel contempo si avverte l’eco di Is 7,9b quando Giosafat, nel momento della partenza per la guerra, si rivolge ancora al popolo con le seguenti parole:

“Ascoltatemi, Giuda e abitanti di Gerusalemme! Credete (ha᾽ămînû) nel Signore, vostro Dio, e avrete sicurezza (wetē᾽āmēnû) ; credete (ha᾽ămînû) nei suoi profeti e riuscirete (wehaṣlîḥû)” (2 Cr 20,20).

L’esortazione “credete nel Signore e avrete sicurezza” è formulata mediante la citazione di Is 7,9b. Questo riferimento intertestuale è una prova inequivocabile dell’influsso che il detto isaiano ha continuato ad esercitare all’interno della tradizione di Israele. Il fatto che l’invito alla fede nel Signore sia accompagnato dall’esortazione a credere nei suoi profeti, rispecchia nuovamente la concezione tipica dell’opera deuteronomistica. Sempre in questo versetto, in virtù del parallelismo, la sicurezza della fede si trova connessa con la promessa della “riuscita”. Si tratta di una promessa che, evidentemente, non va intesa nel senso di un successo temporale, ma nella linea del Servo del Signore che, come recita Is 52,12a, “avrà successo”, perché è sostenuto dal Signore nell’adempimento della sua missione fino alla morte. Proprio per questo la morte del Servo poté essere compresa come un evento salvifico che avrebbe raggiunto e trasformato il popolo.
Questa prospettiva teologica, che, inaugurata da Isaia, si sviluppa nell’opera deuteronomistica e trova la propria conferma nel Cronista, costituisce l’orizzonte necessario per comprendere adeguatamente l’importanza della fede all’interno della stessa redazione finale, canonica, della Torah.

3. La fede nella Torah

Due testi, situati in punti strutturalmente nevralgici, mostrano che il tema della fede occupa una posizione speciale nella Torah. L’influsso della prospettiva deuteronomistica appare evidente nei versetti conclusivi di Es 14, il capitolo che narra la prodigiosa liberazione di Israele e che svolge, quindi, una funzione narrativa e teologica fondamentale all’interno della stessa Torah. Il testo che ci interessa è costituito dai vv. 30-31:
 
In quel giorno il Signore salvò Israele dalla mano degli Egiziani, e Israele vide gli Egiziani morti sulla rive del mare. Israele vide la mano potente con la quale il Signore aveva operato contro gli Egiziani, e il popolo temette il Signore e credette nel Signore e in Mosè suo servo.
 

L’esperienza dell’esodo, secondo il messaggio di questi versetti, pone l’uomo in un rapporto di adorazione verso il Signore (“temette il Signore”) e nel contempo lo orienta a vivere questo rapporto nella fede, quindi mediante una profonda fiducia in lui.

Anche in questo testo la fede, che apre l’uomo a confidare nel Signore, suppone un’esperienza di salvezza, come è indicato con l’immagine degli Egiziani morti sulla riva del mare. Questa immagine sarebbe fraintesa se fosse presa alla lettera; essa deve essere compresa nel suo significato simbolico, che a sua volta suppone una concezione propriamente escatologica. La fede apre il credente al futuro di Dio, quel futuro di salvezza in cui scomparirà ogni forma di violenza e di oppressione. Qui appare evidente che la fede è abbandono confidente nel Dio dell’esodo, nel Dio che mostra la grandezza della propria forza salvifica liberando il suo popolo dalle potenze che lo hanno ridotto in schiavitù e sono addirittura giunte a decretarne lo sterminio.

L’espressione relativa al popolo che “credette nel Signore e in Mosè suo servo” si muove nell’orizzonte della scuola deuteronomistica, per la quale la fede nel Signore si sviluppa nell’ascolto della sua Parola, mediata dai suoi servi i profeti. Nel testo di Es 14 Mosè è compreso come il rappresentante sommo della profezia e, quindi, come il mediatore della Torah.
Questa affermazione, in concreto, suppone che la fede nel Signore non ha solo una dimensione personale, che riguarda ogni fedele della famiglia di Dio (“il popolo credette nel Signore”), ma è anche dotata di una dimensione comunitaria. Essa suppone l’ascolto dei profeti e l’ascolto della Torah, ossia l’ascolto della Scrittura.
 
La dimensione personale della fede, l’accettare la sicurezza che viene dal Signore e dalla sua Parola, è posta in risalto in Gen 15,6, una pagina nella quale si percepisce non solo l’influsso della tradizione deuteronomistica, ma anche l’influsso della cosiddetta opera sacerdotale.

L’opera sacerdotale, sorta nel periodo dell’esilio, aveva posto al centro della propria concezione la berît, intesa non come alleanza bilaterale (tra il Signore e il suo popolo), ma come promessa gratuita, fatta liberamente da Dio ad Abramo, Isacco e Giacobbe, promessa che la stessa infedeltà di Israele non avrebbe mai potuto annullare. Con il concetto teologico della promessa gratuita, “eterna”, di Dio l’opera sacerdotale sviluppa uno straordinario messaggio di speranza.

Questo concetto infatti, alla luce dell’infedeltà del popolo all’alleanza, suppone che il Signore, per adempiere il suo disegno di salvezza, non abbandonerà il popolo nella sua infedeltà, ma lo rinnoverà con il suo perdono. Si tratta del perdono che trova nella festa dell’espiazione (Lv 16) e nella celebrazione del giubileo (Lv 25) non solo i momenti cultuali della sua solenne celebrazione, ma anche il suo significato altamente teologico di rinnovata comunione con il Signore e con i fratelli “nella giustizia e nel diritto, nell’amore e nella tenerezza” (cf. Os 2,21).

Il testo recente di Gen 15, che suppone la tradizione deuteronomistica e la concezione sacerdotale della berît intesa come promessa, presenta Abramo raggiunto dall’esperienza profetica del Signore. Questo aspetto, proveniente dalla scuola deuteronomistica, è chiaramente indicato dalla formula dell’evento della parola (“venne ad Abramo questa parola del Signore”: cf. Gen 15,1.4), formula la cui origine è appunto da ricercare nell’ambito delle esperienze proprie dei profeti. La “Parola del Signore” giunge ad Abramo che nonostante l’età avanzata è senza figli e, dunque, vive nell’amara consapevolezza che per lui non si è adempiuta la promessa della discendenza. Proprio in questa situazione di “sterilità” l’esperienza del Signore dischiude ad Abramo il futuro della salvezza con la promessa di una discendenza numerosa come le stelle del cielo.

La reazione di Abramo a questa parola è racchiusa nella densa affermazione di Gen 15,6: “Abramo credette al Signore che glielo accreditò come giustizia”. Questa frase testimonia il significato profondo che la fede aveva acquistato all’interno della tradizione di Israele. Avere fede, come scrive Brüggemann commentando questo testo, significa “credere nel futuro di Dio e vivere certi di quel futuro anche se il presente è di morte”.

L’affermazione che Dio “accreditò questo come giustizia” ha lo scopo di presentare Abramo come modello dei “giusti” la cui voce si sente nei Salmi. E’ la voce degli ‘anawîm, di coloro che hanno scelto di vivere nella fedeltà al Signore e alla sua Parola, anche a costo dell’emarginazione economica, sociale, anche a costo della persecuzione, alla quale potevano andare incontro per la loro scelta.

La fedeltà al Signore e alla Torah, che si manifesta nella coerenza della vita, attinge il suo valore dalla fede. Effettivamente, la fede rende l’uomo “giusto” perché segna la fine di ogni forma di legalismo e nel contempo orienta il credente a sviluppare la propria esistenza in sintonia con la Parola del Signore e a fondare l’impegno della propria coerenza sulla sicurezza della fedeltà divina.

Un dato di notevole interesse, infine, è rappresentato dal fatto che proprio questa comprensione della fede, attestata nel testo recente di Gen 15, presenta una forte connessione con la concezione che affiora nella redazione finale del Salterio e nel messaggio della profezia escatologica.

4. La fede nell’orizzonte dei Salmi e della profezia escatologica

Un’eco dell’importanza di Is 7 e del suo influsso appare in alcuni salmi che, richiamandosi alla concezione deuteronomistica, e alla sua ricezione nella Torah, vedono nella mancanza di fede la causa dell’insuccesso del popolo nel cammino del suo esodo.
Il Sal 78, p. es., presenta la “ribellione del popolo”, che mormora contro il Signore e dubita della sua potenza, con la seguente descrizione:

“Potrà forse Dio preparare una mensa nel deserto?” (v. 19bc).

Nonostante il prodigio dell’acqua, scaturita dalla roccia (v. 20a), il popolo continua nella sua mormorazione:

“Potrà forse dare anche pane e preparare carne per il suo popolo?” (v. 20b).

Come si può facilmente intravedere, questi versetti si richiamano al racconto del prodigio dell’acqua di Es 17,1-7 e al racconto della manna e delle quaglie di Es 16, offrendone un commento, un midrash, alla luce del Sal 23: Il Signore è il pastore che guida alla vita. Anche se sta attraversando la valle oscura della prova, l’orante ha la certezza che il Signore è con lui, gli prepara una mensa, lo libera dai suoi nemici e lo chiama al banchetto della liberazione, della gioia, della salvezza. La colpa del popolo, secondo il Sal 78, consiste proprio nel fatto che non vive con quella fiducia, che ha il suo modello esemplare nell’orante del Sal 23, al contrario è giunto fino a dubitare della stessa potenza del Signore. Proprio per questo la ribellione del popolo è delineata sinteticamente con l’espressione: “Non credettero in Dio e non confidarono nella sua salvezza” (v. 22).

Accanto ai motivi già incontrati nel Deuteronomista, qui affiora una sottolineatura nuova. In questo passo il credere in Dio è posto esplicitamente in parallelo con il verbo “confidare nella sua salvezza”. Ciò che mette in pericolo l’esistenza del popolo di Dio non sono i suoi nemici, ma la sua paura, la sua incredulità.

In particolare, secondo il Sal 78, la fede nel Signore sviluppa l’attesa della liberazione, l’attesa della mensa della salvezza, un’attesa che si fonda sulla sicurezza della Parola e si concretizza, come in Gen 15, in un abbandono confidente al disegno di Dio e alla sua potenza.

La connessione della fede con l’attesa della mensa preparata dal Signore costituisce un motivo che unisce questo testo all’orizzonte escatologico di Is 25,6-8, dove si annuncia che il Signore prepara sul monte Sion il banchetto dell’alleanza per tutti i popoli. L’attesa della mensa diventa attesa della salvezza escatologica che è preparata da Dio per tutte le genti.

Questo orizzonte universale della fede trova una esplicita conferma nel testo di Gn 3,5 che si muove ugualmente in una prospettiva escatologica. La pericope di Gn 3,4-10 inizia presentando Giona mentre si inoltra nella città di Ninive predicando: “Ancora quaranta giorni e Ninive sarà distrutta” (v. 4). Subito dopo il testo descrive la reazione degli abitanti con la frase: “I Niniviti credettero in Dio” (v. 5). La profondità di questa frase appare nel fatto che i Niniviti non si limitarono a credere all’annuncio della fine imminente di Ninive, ma “credettero” alla parola del profeta e quindi credettero in Dio che ha la potenza di realizzare il suo disegno nella storia degli uomini e dei popoli. E’ interessante rilevare che anche in questo testo, dove si parla non di Israele, ma delle genti, il “credere in Dio” apre a quella speranza che non è un’evasione dalla realtà, ma un’energia che trasforma l’uomo e lo orienta al Signore. Gli abitanti di Ninive infatti, secondo la narrazione biblica, iniziano un digiuno penitenziale che coinvolge tutti. Lo stesso re con un apposito editto invita il popolo a rivolgersi a Dio “con forza”:

“Ognuno si converta dalla sua via malvagia e dalla violenza che è nelle sue mani. Chi sa che Dio non cambi, si ravveda, deponga la sua ira ardente non si penta e metta da parte la sua ira ardente e così noi non periamo!” (Gn 3,8-9).

L’espressione “chi sa che non cambi, si ravveda” ricorre anche in Gl 2,14. L’invito alla conversione con digiuno e suppliche, che nel testo di Gioele è diretto a Israele, qui è rivolto agli abitanti di Ninive, dunque al mondo delle genti. Nel futuro escatologico anche le genti crederanno, si convertiranno e sperimenteranno la salvezza di Dio.

Nel testo di Is 25,6-8 la promessa escatologica del banchetto preparato per tutte le genti è riletta nella prospettiva della risurrezione. Questa rilettura “apocalittica” è attestata dalla frase iniziale del v. 8, con cui si annuncia che “il Signore eliminerà la morte per sempre”. Proprio questa frase mostra che, quando si sviluppa la fede nella risurrezione, l’annuncio escatologico della salvezza di tutte le genti diventa attesa del compimento delle promesse di Dio, compimento che riguarda tutti i popoli e che si realizzerà nel “mondo che deve venire”, nel mondo eterno del regno di Dio.

Particolarmente significativa e articolata, in questo contesto, è la testimonianza del Sal 116. L’orante, che ha sperimentato la liberazione da un imminente pericolo di morte a causa dei suoi nemici (cf. v. 8), richiama l’esperienza di quel momento con le parole: “Ho creduto, anche quando dicevo: Sono troppo infelice” (v.10). Nell’ora della prova, nel momento in cui avvertì che “ogni uomo è menzognero” (v. 11), l’orante di questo salmo non è venuto meno alla fiducia nel Signore, al contrario ha perseverato nella fede e nell’amore.

La domanda “Che cosa renderò al Signore per tutti i benefici che mi ha fatto?” serve per introdurre il motivo del sacrificio di ringraziamento, o tôdâh, sacrificio che era offerto da chi fosse stato liberato da un grave pericolo di morte. L’orante, liberato dalla morte, può adempiere il voto formulato nell’ora del pericolo: “Alzerò il calice della salvezza e proclamerò il Nome del Signore”. Egli offre il sacrificio di ringraziamento insieme a coloro che formano il popolo dei “fedeli”, coloro che si rifugiano nel Signore e confidano nella sua parola e nella sua salvezza. Il momento centrale del sacrificio di ringraziamento è costituito dal rito in cui chi è stato liberato dalla morte, alla presenza di coloro che fanno parte della sua vita, alza il “calice della salvezza” e “proclama il nome del Signore”, vale a dire proclama la salvezza che il Signore ha operato, esaudendo la sua preghiera e liberandolo dalla morte.

Gli scritti rabbinici testimoniano che quando si sviluppò la fede nella risurrezione il sacrificio di ringraziamento assunse un significato nuovo. Si comprese, infatti, che il vero sacrificio tôdâh non è quello che si celebra in questo mondo per ringraziare Dio che ha guarito da una grave malattia o ha liberato da nemici che volevano la morte del credente, ma è la tôdâh della risurrezione.

“Nel mondo che deve venire finiranno tutti i sacrifici,
ma il sacrificio tôdâh non finirà in eterno;
finiranno anche tutti i canti,
ma i canti tôdâh non finiranno in eterno”.

Nel Sal 116 questo significato nuovo, che suppone la fede nella risurrezione, è attestato dall’affermazione “Agli occhi del Signore è preziosa la morte dei suoi fedeli” (v. 14).

La fede appare qui come l’atteggiamento dell’uomo che affida tutto se stesso nelle mani del Signore, sicuro che la stessa morte non costituisce il momento della distruzione della sua esistenza, ma l’evento “prezioso” agli occhi di Dio, il momento in cui il Signore indica al fedele il sentiero della vita e lo introduce nella sazietà della gioia davanti al suo Volto (cf. Sal 16,11).

In questo orizzonte apocalittico si muove anche la redazione finale del Sal 22. Questa, infatti, legge l’esperienza della liberazione dai nemici, che porta l’orante a lodare il Signore nell’assemblea dei fratelli (cf. Sal 22,20-26), e la reinterpreta nella luce della salvezza definitiva, quando “coloro che dormono sotto terra”, liberati per sempre dalla morte, si prostreranno nell’adorazione e nella lode davanti al Signore (cf. Sal 22,29-30).

Il futuro della salvezza, al quale il credente è orientato dalla Parola del Signore, si manifesta in tutta la sua pienezza con la confessione del “mondo che deve venire”, il mondo della risurrezione.
La risurrezione costituisce, per chi crede nel Signore e nella sua Parola, la sicurezza per antonomasia. E’ la sicurezza che libera l’uomo dall’orizzonte della morte, nella quale si trova, e lo orienta all’esperienza di quella comunione con il Signore che avrà il suo compimento definitivo nella gloria del Regno.

5. Rilievi e prospettive

La presentazione del tema della fede all’interno dell’AT lascia intravedere una ricchezza e una profondità straordinarie. L’attenzione prestata allo sviluppo diacronico del tema consente ora di delineare sinteticamente le grandi linee che sono offerte dalla lettura sincronica, canonica, della Scrittura, ossia dall’insieme della Torah, dei Profeti e degli Scritti. Queste linee si raccolgono attorno a tre nuclei o modelli: il modello Abramo, il modello isaiano-deuteronomistico, il modello escatologico.

Il “modello Abramo” sottolinea che la fede è un’esperienza profetica del Signore; è l’esperienza dell’uomo che è raggiunto dalla Parola e ad essa si apre. In quanto accoglienza profetica della Parola-promessa del Signore, la fede libera dalla paura causata dall’angustia e dalla “sterilità” del presente. La paura, soffocando ogni prospettiva di futuro, da un lato rende la comunità priva di vita, come un campo di ossa aride (cf. Ez 37,1-14; specialmente il v. 11) e, dall’altro, genera le strutture inique della violenza e dell’oppressione (cf. Es 1,8-10). Liberando dalla paura, la fede dischiude il futuro della liberazione, della speranza, della solidarietà e fraternità. La fede apre a quel futuro che è impossibile all’uomo, ma che Dio, nella fedeltà alla sua Parola, realizzerà.

Il “modello isaiano-deuteronomistico” prospetta la fede come l’atteggiamento dell’uomo che accetta la sicurezza che viene dal Signore attraverso la parola dei profeti e attraverso la parola della Torah, personificata in Mosè. In questo nucleo la fede si presenta come elemento che caratterizza tutto il popolo dell’esodo e dell’alleanza. La stessa “conversione”, elemento eminentemente personale della fede, appare anche nella sua dimensione comunitaria: tutto il popolo è chiamato a convertirsi dalla ribellione dell’incredulità per aprirsi all’ascolto della parola del Signore e porre solo in lui la sicurezza della propria fiducia e della propria speranza.

Il “modello escatologico”, infine, conferisce alla fede l’orientamento verso quel futuro nel quale si realizzeranno pienamente e definitivamente le promesse della salvezza divina. Questo futuro è delineato con due peculiarità che lo caratterizzano. Anzitutto esso riguarda il popolo di Israele che nel tempo escatologico costituirà la comunità che non si ribella alla Parola e, proprio per questo, formerà il popolo “mite e umile che si rifugia nel nome del Signore” (Sof 3,12) e vive nella gioia della salvezza divina.

In secondo luogo il futuro della salvezza escatologica riguarda non solo Israele, ma tutte le genti. Con un linguaggio simbolico-teologico si afferma che tutti i popoli non solo saliranno al monte del tempio del Signore per accogliere la Torah e camminare nelle vie di Dio (cf. Is 2,2-4), non solo parteciperanno al banchetto dell’alleanza con il Signore (cf. Is 25,6-8), ma formeranno anch’essi il popolo del Signore e l’opera delle sue mani (cf. Is 19,23-25).

Un dato che ci sembra acquisito, in base alla presentazione diacronica dei testi relativi alla fede, è che questi nuclei o modelli, interagendo tra di loro, permeano l’insieme dell’AT. Così, p. es., il “modello isaiano-deuteronomistico” s’incontra nella solenne conclusione di Es 14; il “modello Abramo” è presente in modo speciale nei Salmi; il “modello escatologico”, a sua volta, costituisce l’orizzonte nel quale si venne configurando la forma canonica della Torah, dei Profeti e di tutte le Scritture. La promessa escatologica dell’effusione dello Spirito del Signore su ogni uomo (cf. Gl 3,1-5 e At 2,17-21) costituisce una preziosa conferma che la fede è intrinsecamente connessa con l’esperienza profetica del Signore. 

Nel tempo della salvezza escatologica, quando lo Spirito profetico sarà effuso su ogni uomo, tutti confideranno nel Signore e vivranno nella luce della sua Parola.

La profonda interconnessione di questi tre nuclei o modelli permette di comprendere che, a partire da quando si sviluppò l’attesa del mondo della risurrezione, questa rappresentò il loro punto di convergenza, il vertice verso il quale è protesa la fede testimoniata dalle Scritture.

In altri termini, la risurrezione costituisce l’orizzonte nel quale la fede trova la meta ultima della sua apertura fiduciosa al Signore. Le Scritture annunciano proprio questo futuro di salvezza e ad esso orientano il credente perché rende la propria esistenza nella storia un cammino costante verso la pienezza della vita e della libertà nella comunione eterna con il Dio vivente. 

Giovanni Odasso



 


Questo testo, completo di Note per l’approfondimento, è su: “Lateranum” n. 1/2012
Rivista quadrimestrale della Facoltà di S. Teologia della Pontificia Università Lateranense. In essa i docenti della Facoltà propongono i frutti della loro attività di ricerca e di insegnamento nell’ottica del sapere interdisciplinare. Negli ultimi decenni la rivista ha contribuito in modo determinante al profilarsi delle linee di pensiero di quella che può a buon diritto definirsi “scuola lateranense”.

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Scrittura e credente

Scrittura e credente

“Una scrittura non frequentata 
è come un corpo senza vita”.
 

Rav dott. Riccardo Di Segni

di Rav Riccardo Di Segni

Quando gli ebrei parlano di rapporto con la propria religione, è raro che si definiscano credenti; il credere lo si dà un po’ per scontato, è poco misurabile nel suo puro movimento di spirito, deve avere una dimostrazione nell’azione. Per cui si preferisce parlare di osservanti. E non è differenza da poco. Nel primo secolo dell’era cristiana i membri dei numerosi gruppi dissidenti dall’orientamento prevalente -che oggi si direbbe ortodosso- e tra questi i primi giudeocristiani, erano definiti dai rabbini con il termine di minim, plurale della parola biblica che indica “la specie”. Qualcuno ha suggerito che l’insolito termine sia una contrazione ironica della parola maaminim, cioè credenti; nel senso che voi dite o pensate o credete di essere credenti, ma la fede è un’altra cosa. Quindi attenzione a usare questa parola. Quanto alla scrittura, effettivamente nel linguaggio rabbinico si parla spesso di kitve haQodesh, che si traduce impropriamente come “sacre scritture”, ma che letteralmente è “scritture del Sacro”, nel senso di Colui che è sacro. Ma la Bibbia, quella ebraica, è chiamata miqrà; la stessa radice semitica da cui poi deriverà il Corano, che non significa scrittura, ma lettura. Qual è la dimensione prevalente, la lettura o la scrittura? E ancora, la guida delle nostre azioni è chiamata Torà, che appunto è insegnamento. Ora, nel vocabolario rabbinico, di Torà non ce n’è una sola ma due: quella scritta, Torà shebikhtav, che corrisponde al Pentateuco, e quella “orale”, Torà shebe’al pe, che corrisponde a tutta la tradizione, dai tempi remoti fino ai nostri giorni. Perché chiamarla orale se si ritrova in migliaia di opere scritte e stampate? Perché fino alla fine del secondo secolo dell’era cristiana l’insegnamento dei Maestri si trasmetteva a viva voce, per tenerlo distinto dal testo del Pentateuco cui si riferiva. Furono poi la dispersione e le mille difficoltà di sopravvivenza a imporre anche per questa tradizione l’uso della penna e della carta o della pergamena. Tutto questo per dire che la sacralità non si esaurisce nella scrittura, ma è parimenti sacra la parola non scritta, tramandata da Maestro ad allievo e perennemente arricchita.  

La scrittura è sacra ma senza la lettura non vive, e non s’illumina e non si espande senza l’interpretazione e la trasmissione. 

Ora che ci fa il nostro cosiddetto credente con la scrittura, o lettura che sia, o dottrina orale? La risposta è: tutto, o meglio senza la scrittura non c’è spazio e senso per la fede. Per un ebreo i testi a lui sacri sono la guida della vita quotidiana sia in senso normativo che spirituale. Il senso della vita del singolo e della collettività è spiegato nelle Scritture. Che dicono chi sei, dove ti devi dirigere, cosa scegliere. Perché appartieni a un destino particolare. Che sei un anello di una catena antica, e per questo hai una responsabilità eccezionale. Che non ti puoi sottrarre al compito che hai insieme a tutti coloro che sono chiamati a farlo. Le scritture sono i testi che parlano dei Patriarchi, di Mosè, dei Profeti, della ricerca reciproca di D. e uomini, dell’intervento divino come creatore e come promotore della storia, della chiamata alla santità di un’intera collettività. Le scritture prescrivono le azioni che devi compiere e quelle che non devi fare. La lista è lunga e la nostra tradizione arriva a contare 613 precetti, di cui 248 sono “positivi”, azioni da compiere, e 365 i divieti, tanti quanti i giorni dell’anno solare. Di questa lunga lista ormai da 19 secoli di precetti attivi ce ne sono circa 150, perché gli altri sono collegati a norme cultuali e di purità che richiedono l’esistenza di un Santuario centrale, che non è stato più ricostruito dal 70. Ma anche i 150 precetti, che in alcuni casi sono solo il titolo di un capitolo, sono più che sufficienti per inquadrare la vita della persona, o se vogliamo del credente, in modo completo, in ogni sua forma. Le regole disciplinano non solo l’onestà nei comportamenti sociali, ma intervengono nei settori più provati e personali della alimentazione e del sesso. Inoltre scandiscono il tempo, con il rispetto del Sabato e delle feste. Tutto questo può sembrare esagerato o poco tollerabile anche per chi, credente di altre religioni, si riallaccia alla Bibbia ebraica come base per la sua credenza. Alle origini la frattura tra la matrice ebraica e l’evoluzione cristiana trovò una delle sue forze fondamentali proprio nel rifiuto, o nell’abolizione della cosiddetta legge. Non è certo questo il luogo per discutere di questo tema affascinante (ammesso che di questo si possa mai discutere nella cornice del dialogo), ma ciò che va sottolineato è che nella tradizione ebraica l’aspetto normativo, che sia di ambito civile che di ambito rituale-cerimoniale, è essenziale e irrinunciabile. Le “scritture”, in senso lato, sono il riferimento e il deposito di questa essenzialità. Un esempio: La Torà scritta stabilisce una norma, ad esempio il Sabato, e dice che in questo giorno bisogna astenersi da tutto ciò che è lavoro creativo, melakhà; cosa questo significhi non è spiegato, se non con rari esempi, come il divieto di far ardere il fuoco, o di raccogliere la legna fuori dall’accampamento. La tradizione orale colma il vuoto e ragionando sulle narrazioni bibliche trova i modelli e i prototipi delle azioni proibite; le enumera, le classifica, si pone i problemi dell’estensione e della limitazione dei divieti caso per caso. Questo lavoro è durato per secoli e continua in pieno sviluppo ancora oggi, tanto più davanti alle trasformazioni tecnologiche che cambiano la vita ogni momento. La Torà scritta non dice se si può usare il computer o il telefonino di Sabato, lo fa la Torà che un tempo era chiamata orale, pescando nelle fonti e ragionandovi sopra con rigore deduttivo. Tutto ciò può sembrare a un osservatore esterno uno sprofondare nell’aridità legalistica, e difatti questa è l’immagine parodistica e odiosa che è stata trasmessa per secoli; ma solo entrando nel sistema si comprende come la spiritualità, e la salita verso il sacro passano anche, se non soprattutto, attraverso un controllo minuzioso delle azioni e un esercizio rigoroso della ragione. Provare per credere, si direbbe con un gioco appropriato di parole. E il Sabato non è che uno dei tanti modelli di riferimenti.

Senza Torà non esiste il popolo ebraico, perché è la Torà che lo unifica nel tempo e nello spazio e dà il senso la giustificazione e la missione della sua esistenza. Ma senza popolo ebraico non esiste la Torà, perché mancherebbe lo strumento esecutivo della sua realizzazione. C’è quindi un legame inscindibile al punto che i mistici dicono Israel weorayta chad hu, Israele –nel senso del popolo d’Israele- e la Torà sono un’unica cosa. 

Questo quindi è il senso del tutto speciale del rapporto tra la fede ebraica e le scritture, è il rapporto dell’identità. C’è infine una conseguenza rilevante in questo rapporto; le scritture non tollerano l’ignoranza. Per questo rappresenta dovere fondamentale della vita religiosa, da solo pari a tutto il resto, lo studio. Bisogna studiare da quando si è in grado di farlo fino all’ultimo momento della vita. Una scrittura non frequentata è come un corpo senza vita.

Fonte: www.romaebraica.it

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