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L’ occidente e la sharia

L’ occidente e la sharia

Se torna a soffiare il vento del califfato 

Giorgio Israel

Fino a poco tempo era considerato paranoico chi prendeva sul serio i proclami della nascita di un nuovo califfato che avrebbe riconquistato l’Europa fino a Roma. Oggi rischia di far la figura della talpa chi non vede la concreta realizzazione di quel disegno. Esiste ormai un nuovo califfato non virtuale ma ancorato su un territorio, che si espande con una potenza militare inattesa, mette in fuga centomila cristiani e quarantamila curdi e distrugge le tracce di qualsiasi altra civiltà. Quei proclami un tempo ritenuti ridicoli riecheggiano dall’Iraq a Londra – dove un imam promette di sgozzare a Trafalgar Square chiunque non si assoggetterà alla Sharia – al Veneto – dove un altro imam incita a uccidere gli ebrei fino all’ultimo. Altri spezzoni del califfato emergono in tutto il Medio Oriente, fino alla Libia, a poca distanza dalle coste italiane e già emergono movimenti in Tunisia che si dichiarano pronti a combattere a fianco dell’esercito del califfato (Isis). Una parola chiara va anche detta sulla guerra di Gaza che ormai solo una talpa potrebbe non rendersi conto che va ben oltre il conflitto israelo-palestinese. Nessuno può mettere in discussione che tale conflitto resti il problema centrale sullo sfondo e che sia legittimamente aperto un ampio ventaglio di opinioni sul modo di risolverlo. Ma la sua riduzione a una questione umanitaria o addirittura a un’aggressione genocida da parte israeliana al popolo palestinese è un’inaccettabile contraffazione della verità che ha trovato espressione in un indegno striscione affisso (e fortunatamente poi rimosso) a Livorno. L’equazione Gaza = Auschwitz proposta da taluno è ridicola e scandalosa al contempo: non risulta che da Auschwitz fosse possibile bombardare le cittadine tedesche circostanti con missili ricevuti dall’esterno o preparare un assalto massiccio di centinaia di terroristi sbucati da tunnel costruiti con sussidi umanitari. Piuttosto occorre dire che nessuno stato sovrano potrebbe tollerare una simile aggressione al suo territorio e che riesca a contrastarlo con qualche efficacia non è una colpa bensì un fatto positivo. Il punto è che la questione israelo-palestinese – su cui entrambe le parti sono chiamate a scelte chiare, coraggiose e anche dolorose – potrà riemergere soltanto quando il campo sarà libero da chi persegue altri obiettivi: una guerra santa condotta con ogni mezzo, incluso il farsi scudo della popolazione civile, nel quadro di un assalto generalizzato che mira sia a imporre l’islam integralista a tutto il mondo musulmano, sia al cuore delle società occidentali. Dovrebbe far riflettere che esso si presenti, a distanza di anni, con forza e pericolosità tanto cresciute da rendere patetico il ricordo di Al Qaeda. E davanti a tutto ciò non vi è altro che debolezza e sbandamento crescenti. Sarebbe da ridere – se non fosse tragico ­– che, mentre mezzo Occidente è impegnato a indurire le punizioni contro chi non è d’accordo con il matrimonio gay, la British Law Society dia istruzioni a notai e avvocati perché accettino i testamenti redatti secondo le regole della Sharia che sono basati sulla condizione di totale subordinazione del coniuge femminile; o che gran parte del mondo musulmano francese abbia votato a destra di fronte alle leggi sul matrimonio e sull’educazione alla cultura del “genere” promosse dal governo socialista. Sono ulteriori manifestazioni di questa tendenza suicida la sostanziale indifferenza con cui sono accolte le persecuzioni dei cristiani (cosa deve succedere di peggio perché si esprima una chiara reazione?) e il dilagare di un nuovo antisemitismo che, ancora una volta, mette alla gogna gli ebrei come responsabili di tutti i mali del mondo e si manifesta in modo inquietante anche nel nostro paese con l’invito al boicottaggio dei negozi gestiti da ebrei.

Di fronte al disastro, l’ex-superpotenza mondiale non trova di meglio che scaricare qualche bomba episodica farfugliando di transazioni diplomatiche con chi non ne vuol sentir neppure parlare. È chiaro che la paralisi statunitense è generata da una sequenza di politiche sbagliate, prodotte dall’incapacità di comprendere anche antropologicamente le dinamiche dei territori coinvolti. Ma gli errori non giustificano il voltarsi dall’altra parte di fronte a un dramma di dimensioni epocali che, più prima che poi, riguarda tutti. E ancor meno è giustificabile la totale irrilevanza dell’Unione europea che tende a cancellare le politiche nazionali per sostituirvi il nulla, come insegnano vicende che riguardano da vicino il nostro paese, ovvero il dramma dell’immigrazione di massa che l’occhiuta eurocrazia ci impone di affrontare con il massimo in quantità e qualità dell’accoglienza per poi offrire un muro di spalle di fronte alla richiesta di delineare una linea politica continentale. E, anche qui, solo una talpa potrebbe non vedere le connessioni tra l’afflusso migratorio e le campagne militari dell’integralismo. È noto che l’irrilevanza europea nella politica estera è conseguenza dell’aver costruito l’intero edificio comunitario sul terreno dell’economia, mettendo il resto in secondo piano. Questa constatazione dovrebbe condurre in tempi rapidissimi a capire che avanti a tutto viene la politica. I califfati bussano imperiosamente alle porte e traggono incoraggiamento dall’ignavia di quello che, piaccia o no, è il loro nemico dichiarato.


Giorgio Israel

http://gisrael.blogspot.it/2014/08/se-torna-soffiare-il-vento-del-califfato.html

(Il Mattino, 10 agosto 2014)

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Cristianità ed ebraismo: c’è ancora molto lavoro da fare.

Cristianità ed ebraismo: c’è ancora molto lavoro da fare.

Una sfida da accogliere

Giorgio Israel

La sfida è trasportare i risultati ottenuti nelle coscienze dei singoli e radicarli in profondità.

Quando si parla dell’antisemitismo cristiano non occorre dimenticare il percorso compiuto in circa mezzo secolo. Constato senza esitazione che i miei figli non hanno conosciuto nemmeno una piccola parte delle cattive parole, delle insinuazioni devastanti, delle pressioni psicologiche che ho subito nei miei anni scolastici. L’insegnamento del disprezzo sopravvive, ma in circoli ristretti ed esterni alla dottrina ufficiale della Chiesa. Come dimenticare quel che veniva scritto ancora meno di un secolo fa sull’organo ufficiale dei Gesuiti, “Civiltà Cattolica”? Prose come quelle stentano a uscire – almeno in quei termini – persino dal covo più accanito dell’antisemitismo cattolico, la comunità lefebvriana. Un grande cammino è stato compiuto in mezzo secolo dopo duemila anni di odio e di persecuzioni.

Eppure questo non ci basta, ed è giusto che sia così. Ma non sarebbe giusto svalutare l’importanza di quel cammino, altrimenti non sapremmo neppure cosa resta da fare. L’opera di Giovanni XXIII e la Nostra Aetate hanno segnato l’inizio della svolta. Quel testo contiene l’embrione della tesi più audace, secondo cui i «doni» e la «vocazione» di Dio sono «senza pentimento», accanto a un atteggiamento di generica benevolenza: gli ebrei sono «ancora» carissimi a Dio e da rispettare per «religiosa carità evangelica». Era un passo decisivo per sbarazzare il campo dell’insegnamento del disprezzo incorniciato in un invito ai fedeli alla tolleranza e al rispetto malgrado le incomprensioni depositate nei secoli. Per iniziare a spazzare via il terreno da queste incomprensioni occorrevano atti concreti, spettacolari, carichi di emozioni. Tale fu la visita di Giovanni Paolo II alla Sinagoga di Roma. Il papato di Wojtyla non è stato esente da passi incespicanti, soprattutto in certe occasioni pasquali in cui rispuntarono ambigui accenni sul ruolo degli ebrei nella Passione di Gesù.

Ma la nota dominante fu quella della traduzione sul piano concreto dell’invito contenuto nella Nostra Aetate. Giovanni Paolo II dichiarò che «chi incontra Gesù, incontra l’ebraismo». Fu, ancor più che un asserto teologico, un proclama pratico, un invito a incontrare non soltanto un ebraismo astratto e cristallizzato nel passato, ma l’ebraismo vivente e, in definitiva, a incontrare gli ebrei. Ma neanche questo poteva bastare. Non poteva bastare la professione di fratellanza e il fatto emotivo, perché le radici più profonde, ostinate e difficili da sradicare sono sul terreno teologico. Chi ha compreso che questo era il passo decisivo da compiere è stato il Cardinale Ratzinger, prima sotto il papato di Giovanni Paolo II, e poi come quel papa Benedetto XVI che si è dimesso con un gesto che ha lasciato il mondo attonito. Sono in tanti, quasi tutti, a riconoscere l’importanza dell’opera da lui fatta, ma nel passato non sono stati altrettanti ad averla compresa e apprezzata; soprattutto ad aver valutato lo straordinario sforzo concettuale e teologico compiuto con il documento del 2001 su “Il popolo ebraico e le sue Sacre Scritture nella Bibbia cristiana”. È un testo che sviscera tutti i passi evangelici in cui trova alimento l’antigiudaismo, al fine di eliminare le potenzialità negative che essi possono contenere.

A questo testo occorre aggiungere varie parti dei libri di Benedetto XVI su Gesù di Nazareth, che hanno sottratto ogni spazio al tragico mito del deicidio. C’è chi ha minimizzato l’importanza di quest’opera – che invece, a mio avviso, costituisce la conquista più solida di tutte – a causa della visione complessiva ratzingeriana tesa a una forte difesa della dottrina e della tradizione. È curioso che questa accusa sia venuta talora da chi propone una difesa del tutto analoga in ambito ebraico. È un atteggiamento incoerente: perché mai si dovrebbe chiedere un atteggiamento riformatore alla Chiesa quando si considera un indirizzo del genere una sciagura per sé stessi? Chi scrive considera
negativo – per dirla con le parole di Alberto Cavaglion – che siano sempre i “modernisti” ad avere la peggio. Ma non si può predicare il “modernismo” a tutti salvo che a sé stessi. L’importanza dell’opera teologica di Benedetto XVI è provata dal fatto che essa ha reso possibile il dialogo sul tema più difficile. Basti pensare al noto libro del rabbino Jacob Neusner, Un rabbino parla con Gesù; o all’affermazione del rabbino Gilles Benheim – che ricordavo nell’ultima rubrica di Shalom -secondo cui l’antigiudaismo sarà superato definitivamente quando i cristiani riusciranno a percepire il significato positivo del “no” ebraico alla divinità di Gesù. Cosa resta da fare? Il lavoro lungo e complesso di trasportare questi risultati nelle coscienze dei singoli e radicarli in profondità.

È un lavoro tanto più complesso in un periodo di grande difficoltà e di sfide epocali per il mondo cattolico, e cristiano in generale, di cui le dimissioni del Papa sono la testimonianza. Sta alla saggezza di tutti mettersi gli occhiali di quel che unisce, persino quando si guarda a quel che divide, anziché darsi all’opera di distruzione, la più facile di tutte.

Giorgio Israel

Fonte: Shalom, marzo 2013

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