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il “Sacro” nell’ebraismo/ di Rav Elio Toaff

il “Sacro” nell’ebraismo/ di Rav Elio Toaff

Per poter comprendere la posizione dell’ebraismo riguardante la concezione del sacro in generale e della sacralità dello spazio in particolare è necessario rifarsi soprattutto alla Bibbia. 

E’ qui infatti che si ritrova il concetto di sacro riferito ad ambiti diversi.

Nel libro dell’Esodo troviamo esempi assai illuminanti a proposito del significato che ha il luogo dello spazio sacro. E’ noto come nel secondo capitolo di quel libro viene riferito il famoso episodio relativo alla rivelazione della Divinità a Mosè attraverso il “roveto ardente”. Ebbene ad un certo punto si dice: “Togliti le scarpe dai tuoi piedi perché il luogo dove tu stai è uno spazio sacro”. Secondo l’esegesi più ricorrente, questo luogo sarebbe da identificare con il monte Sinai, il luogo ove successivamente sarebbe avvenuta la teofania e la promulgazione della Torà, la Legge morale. Appare assai indicativo come la coscienza della sacralità del luogo, non sia sfociata in un particolare rapporto con quello stesso spazio. Si direbbe che il luogo, assolto il suo ruolo di ospitare la rivelazione divina, sia ritornato alla sua naturale normalità. Da qui e da altri esempi, si può dedurre come l’ebraismo, a differenza di altre religioni non concepisca la sacralità dello spazio, ovvero qualcosa dotato di particolari influenze oppure ritenuto medium di particolari rapporti soprannaturali.

Invece il luogo mantiene una certa “specialità” tutto ii tempo che quello è chiamato a
svolgere un determinato ruolo oppure partecipa ad un evento straordinario carico di valenza spirituale e religiosa. I luoghi sono tuttavia meritevoli di rispetto, dignità ed onore per quello che essi rappresentano e non hanno quindi un valore intrinseco e totemico.
Al contrario, l’ebraismo sente molto forte la sacralità legata al tempo, ovvero la dimensione particolare che hanno certi momenti riguardanti la celebrazione delle festività e delle solennità del calendario ebraico.
Insegnano i Maestri ebrei che tre persone riunite insieme e che ragionano intorno a cose sacre, la divinità si trova in mezzo a loro; così pure dieci persone che si riuniscono costituiscono tutti insieme una “sacra comunità”nucleo iniziale e fondamentale della società.
Racconta un apologo ebraico che dal momento in cui è stato distrutto il Santuario di 
Gerusalemme, che agli occhi di ogni individuo simboleggiava la presenza del divino in mezzo agli uomini, la stessa divinità si ritrova attualmente in ogni casa di studio e di preghiera, come a dire che la sacralità dello spazio avviene grazie all’approfondimento e alla meditazione intorno agli argomenti di per sé sacri. 

Rav Elio Toaff

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Shavuot/Pentecoste

Shavuot/Pentecoste

Il “dono” della Torà

  

 MEMORIA DELLA RIVELAZIONE

Per la tradizione ebraica, soprattutto rabbinica, la festa di shavuot o pentecoste è celebrazione e memoriale dell’evento straordinario verificatosi sul Sinai al terzo mese dall’uscita dall’Egitto (cfr Es 19, 1-9): da una parte Dio che si rivela ad Israele chiedendogli di accogliere liberamente la sua parola e i suoi comandamenti, dall’altra Israele che risponde accettando gli ordini ricevuti: «Quanto il Signore ha detto, noi lo faremo e ascolteremo» (Esodo 24,7).

Evento straordinario: in cui Dio si rivela non come forza, potere od energia bensì come amore personale che elegge e si consegna alla libertà umana e in cui Israele si decide per Dio divenendo suo partner e popolo d’alleanza.

Shavuot, per i rabbini, ricorda e attualizza questo evento dove Dio ed Israele si vincolano ad un patto di amore e di fedeltà come quello tra lo sposo e la sua sposa, come vogliono alcuni maestri per i quali sul Sinai si celebra lo sposalizio tra Dio ed Israele, dal quale dipende lo shalom: la pienezza dei beni messianici e la felicità del mondo.

IL TERMINE «SHAVUOT»

Vuol dire «settimane» e sottintende il numero sette, perché la festa è celebrata «sette settimane» dopo pasqua: «Conterai sette settimane; da quando si metterà la falce nella messe comincerai a contare sette settimane» (Levitico 23, 15). Lo stesso significato ha il termine pentecoste che, in greco, vuol dire «cinquantesimo», sottinteso giorno, rispetto al giorno di pasqua inteso come primo giorno. Anche se, come appare da questi testi, nella Torah scritta, la festa di pentecoste ha un carattere agricolo, con il tempo essa si è lentamente storicizzata, rivestendosi di un nuovo significato: non più solo celebrazione di Dio come donatore dei frutti della terra bensì di Dio come donatore della Torah e della rivelazione ad Israele. Anche se è difficile datare con esattezza quando avviene questo passaggio dalla dimensione naturalistica alla dimensione storica, è comunque certo che dall’epoca rabbinica in poi la festa di pentecoste è legata quasi esclusivamente al dono della Torah, come ancora oggi si legge nel qiddush: «Benedetto sei Tu, Signore nostro Dio, che ci hai scelti tra tutti i popoli e ci hai innalzati al di sopra di tutte le lingue santificandoci con i tuoi comandamenti. Signore nostro Dio, poiché tu ci ami, ci hai dato incontri per la gioia, feste e tempi per il giubilo e questa festa delle settimane: tempo del dono della nostra Torah, convocazione santa per amore».

ALTRI TERMINI

Giorno delle primizie

Nella Torah scritta, in Esodo 23,16, se ne parla come chag ha-katzir, «festa della mietitura»: «Osserverai la festa della mietitura delle primizie dei tuoi lavori, di ciò che semini nel campo»; mentre in Numeri 28, 26, come yom ha-bikkurìm, «giorno delle primizie»: «II giorno delle primizie, quando presenterete al Signore una oblazione nuova, alla vostra festa delle settimane, terrete una sacra adunanza; non farete alcun lavoro servile». Fino alla distruzione del tempio (70 d.C.) sarà questa la dimensione prevalente della festa, alla quale la Mishnah dedicherà il trattato Bikkurìm, dove se ne descrive il rituale ricco e suggestivo.

Nella Torah orale la festa viene invece ricordata con il nome di atzeret, «conclusione», per due ragioni: perché la festa di shavuot, a livello agricolo, concludeva il ciclo delle offerte delle primizie iniziato con la mietitura dell’orzo e con la festa delle mazzot («azzime»); soprattutto perché, a livello storico, conclude il significato della pasqua il cui compimento è nel dono della Torah.

Nella liturgia, infine, pentecoste è celebrata come zeman mattan Toratenu, tempo del dono della nostra Torah. Si tratta di una denominazione per noi paradossale in cui la Legge consegnata da Dio ad Israele non è vissuta come peso, ma celebrata come dono.

IL LEGAME CON LA PASQUA

La festa di pentecoste ha un legame costitutivo con la pasqua che già la Torah scritta richiama e sottolinea: «Dal giorno dopo il sabato, cioè dal giorno che avrete portato il covone da offrire con il rito di agitazione, conterete sette settimane complete. Conterete cinquanta giorni fino all’indomani del settimo sabato e offrirete al Signore una nuova oblazione. Porterete dai luoghi dove abiterete due pani per offerta con rito di agitazione, i quali saranno di due decimi di èfa di fior di farina e li farete cuocere lievitati; sono le primizie in onore del Signore» (Levitico 23, 15-17).

Questo legame è ripreso e ribadito dalla liturgia con il rito noto come sefirat ba-omer che consiste nel pronunciare ogni giorno una benedizione nel periodo che separa pesach da shavuot, scalando ogni volta i giorni che avvicinano alla festa di pentecoste.

Maimonide così spiega l’importanza e il senso di questo rito dell’omer: «(Per arrivare a shavuot) noi contiamo i giorni che ci separano dalla festa precedente di pasqua allo stesso modo che chi aspetta un grande amico in un giorno stabilito conta i giorni e anche le ore. Il motivo per cui noi, tra l’anniversario della nostra partenza dall’Egitto e l’anniversario del dono della Torah, contiamo i giorni che passano dall’offerta dell’omer è questo: perché il dono della Torah è lo scopo e l’oggetto dell’esodo dall’Egitto».

Il dono della Torah che Dio consegna sul Sinai ad Israele non è un momento successivo alla liberazione dall’Egitto (Dio prima lo fa uscire e poi gli offre la Torah) ma ne è la ragione interna e la stessa intenzione motivante: Dio lo fa uscire dall’Egitto per fargli dono della Torah. L’esodo dall’Egitto non è fine in sé ma è voluto per il Sinai. In esso Israele passa dalla dipendenza sotto il Faraone all’obbedienza di fronte a Dio; dal vivere per sé, che è schiavitù, al vivere secondo Dio, che è libertà; in una parola: dalla servitù al servizio.

«IL DONO DELLA TORAH»
 

Il dono della Legge

 Festa del mattan Torah, donazione o dono della Torah, la pentecoste è la chiave di lettura più importante per capire che cos’ è la Torah per l’ebraismo: non legge che toglie all’uomo la libertà ma dono divino che la instaura nella soggettività. «Perché, si chiedono i Maestri, nella Scrittura Israele viene paragonato a una colomba?». A questa domanda un saggio risponde: «Quando Dio creò la colomba, questa tornò dal suo Creatore e si lamentò: Oh Signore dell’universo, c’è un gatto che mi corre sempre dietro e vuole ammazzarmi e io devo correre tutto il giorno con le mie zampe così corte. Allora Dio ebbe pietà della povera colomba e le diede due ali. Ma poco dopo la colomba tornò un’altra volta dal suo Creatore e pianse: oh Signore dell’universo, il gatto continua a corrermi dietro e mi è così difficile correre con le ali addosso. Esse sono pesanti e non ce la faccio più con le mie zampe così piccole e deboli. Ma Dio le sorrise dicendo: “Non ti ho dato le ali perché tu le porti addosso, ma perché le ali portino te”. Così è anche per Israele, conclude il commentatore; quando si lamenta della Torah e dei comandamenti, Dio risponde: “Non vi ho dato la Torah perché sia per voi un peso e perché la portiate, ma perché la Torah porti voi”».
La Torah non priva l’uomo della sua autonomia ma gliela garantisce e l’eteronomia divina non mette in discussione l’autonomia umana, anzi è la sola che la istituisce.

DIVERSE ACCEZIONI DI TORAH
 
Tradotta dai LXX con nomos («legge»), il contenuto e il senso della Torah è di indicare all’uomo come vivere secondo Dio. E’ «insegnamento di vita», che indica e traccia i sentieri sui quali camminare perché l’individuo e le collettività raggiungano la pienezza dei beni e vivano nella giustizia e nella pace. In senso stretto il termine Torah corrisponde al Pentateuco, i primi cinque libri della Bibbia dove sono contenuti i principi fondamentali che regolano l’agire di Israele nei confronti di Dio e nei confronti del prossimo. In senso lato Torah indica tutta la Bibbia scritta e la stessa Torah orale (Mishnah, Talmud, Midrashim, ecc.), senza cui la comprensione della Torah scritta è inadeguata. Per l’ebraismo sia la Torah scritta che la Torah orale hanno uguale importanza, ambedue consegnate da Dio a Mosè sul monte Sinai e ambedue finalizzate alla pratica o halakah, ad indicare all’uomo e alla donna come camminare (hlk in ebraico vuoi dire «camminare») secondo Dio.

Secondo la Torah orale il numero dei comandamenti contenuti nella Torah scritta sono 613: 248 positivi (“tu farai»} e 365 negativi («tu non farai”). 248 corrispondono alle membra del corpo umano, 365 ai giorni dell’anno: un modo per dire, con il gioco simbolico delle cifre, che il comandamento divino coinvolge la totalità della soggettività umana, nel tempo e nello spazio. Il cuore di questi 613 precetti o norme sono i dieci comandamenti che godono di uno statuto particolare e per questo sono chiamati decalogo, letteralmente le dieci parole.

“SHAVUOT” NELLA LITURGIA

– lettura della parashah («brano della Torah»): Esodo 19-20, al cui interno si trova il decalogo (Es 20,1-17);

– lettura della haftarah («brano profetico»): Ezechiele 1-3,12: la visione del carro: simbolo dello splendore con cui Dio si è rivelato donando ad Israele la Torah;

– il rotolo di Ruth: la moabita che, scegliendo il popolo d’Israele come suo popolo, è il modello di chi “si rifugia sotto le ali del Signore” (cfr Rut 2, 12);

– il tiqqun: che significa «edificazione», «riparazione», «correzione», «miglioramento». Poiché, per la tradizione ebraica, il mondo è stato creato da Dio imperfetto e attende di essere completato, durante la notte di pentecoste gli ebrei leggono la Torah per portarne a termine la creazione. Come Dio ha creato il mondo per mezzo della Torah, così i suoi figli lo migliorano concreandolo e riconcreandolo attraverso lo studio della Torah. Per questo ci si raccoglie, durante la notte, nelle sinagoghe o nelle case e, con modalità che variano da comunità a comunità, si studia la Torah scritta e la Torah orale.

NEL MIDRASH

– «Perché i dieci comandamenti sono rivolti al singolo e non a tutto il popolo? Affinché ciascuno in particolare debba dirsi: “Per me è stata data la Torah, perché la osservi” »;

– «Perché la Torah è stata data nel deserto e non in terra d’Israele? Perché gli altri popoli non dicessero: “A noi è stata data ma non a loro” e perché Israele non pensasse: “Noi abbiamo diritto alla Torah ma non voi” “;

– «Più di tutti gli israeliti presenti al monte Sinai è caro a Dio il convertito. Egli infatti, pur non essendo stato testimone del fulmine, del tuono e del suono di tromba che accompagnarono la rivelazione, ha accolto su di sé il giogo del Cielo, vale a dire la Torah. C’è qualcuno che può dirsi più caro a Dio di lui?».

PENTECOSTE CRISTIANA

Discesa dello Spirito santo sugli apostoli

Per le scritture cristiane il giorno di shavuot coincide con la discesa dello Spirito del Risorto sugli apostoli: «Mentre il giorno di Pentecoste stava per finire, si trovavano tutti insieme nello stesso luogo. Venne all’improvviso dal cielo un rombo, come di vento che si abbatte gagliardo, e riempì tutta la casa dove si trovavano. Apparvero loro lingue come di fuoco che si dividevano e si posarono su ciascuno di loro; ed essi furono tutti ripieni di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue come lo Spirito dava loro il potere d’esprimersi» (Atti 2, 1-4).

Il racconto della discesa dello Spirito è legato profondamente al racconto della rivelazione di Dio sul monte Sinai sia a livello di linguaggio e di simboli (il «vento», il «fuoco» e le «lingue») che a livello di contenuto e di teologia: lo spirito che Gesù dona in forza della sua morte e della sua risurrezione è la potenza dell’Amore con cui Dio ama e chiama ad amare. Nell’evento dello Spirito accade e si riproduce la potenza della voce rivelatasi sul monte Sinai come Legge dell’amore. La pentecoste cristiana non è superamento della pentecoste ebraica, ma assunzione e radicalizzazione dei suoi significati.


A cura di Per Amore di Gerusalemme – Roma

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Shavuot/Pentecoste

Shavuot/Pentecoste

Benamozegh:Cinque conferenze sulla Pentecoste ebraica

Gabriella Maestri

di Gabriella Maestri

Al pubblico dei lettori che già conosce ed apprezza gli scritti di Elia Benamozegh sarà molto gradita la recente uscita, nella Collana di studi ebraici della Casa editrice Belforte di Livorno, di un volume, a cura di Marco Morselli, che raccoglie cinque conferenze del grande rabbino livornese sul tema della Pentecoste ebraica, la festa di Shavuot, date alle stampe per la prima volta nel lontano 1886, successivamente per più di un secolo cadute nell’oblio ed ora finalmente oggetto di una nuova pubblicazione.

E’ significativo osservare come, in questi ultimi anni, molte opere di Benamozegh abbiano visto nuovamente la luce: basterebbe ricordare, fra le più importanti, Israele e l’umanità, Morale ebraica e morale cristiana, L’origine dei dogmi cristiani, Storia degli Esseni, L’immortalità dell’anima, tutte ancora valide oggi e capaci di interessare e di stimolare i lettori non solo per la ricchezza del loro contenuto, ma anche per la capacità di esporre i molteplici e complessi aspetti della cultura e della spiritualità dell’ebraismo in modo chiaro e scorrevole, mostrandone tutta la bellezza e l’influenza sulla formazione della nostra civiltà occidentale.
Benamozegh – ricordiamolo per chi gli si accostasse per la prima volta – pur essendo di origine marocchina, visse in Italia, a Livorno, nel corso del XIX sec., partecipando con passione ed entusiasmo alle complesse vicende storiche dell’epoca, fiero delle sue radici ebraiche ma anche della sua italianità, convinto di poter contribuire, con il suo personale impegno culturale, religioso e civile, alla costruzione di una società più giusta, in cui i valori delle tre grandi religioni monoteiste, in particolare dell’ebraismo e del cristianesimo, non si sarebbero più contrapposti, ma sarebbero entrati in una fase di dialogo fecondo: per questo egli può essere considerato un vero e proprio precursore del dialogo interreligioso.

Nella parte introduttiva dell’opera, Marco Morselli sottolinea come l’intento di Benamozegh fosse di esporre la parte non scritta, ma tradizionale della storia della Rivelazione sinaitica, con la sua «pleiade bella, edificante, graziosa, di fatti minori, di eloquentissimi particolari». L’attenzione all’universalità della Rivelazione è infatti costante in tutti gli scritti del Maestro: il matan Torah, cioè il dono della Torah, è rivolto non solo a Israele ma a tutta l’umanità, che un giorno sarà capace di accoglierlo e di rigenerarsi in esso. L’ebraismo ha saputo custodire gelosamente e amorosamente questo dono, al tempo stesso però non abbandonando mai la sua prerogativa di farsi tutto a tutti, «di farsi come Elia piccino coi piccini per dar loro la vita, di esser latte pei bimbi, miele per giovani, vino per i vecchi… di avere un linguaggio per il popolo, un altro per i dotti… assumendo forme senza limite e senza fine quante sono le generazioni e gli individui che si succedono, sempre permanendo uno, sempre lo stesso, come l’acqua piovana che scende dal cielo… che diventa vino nelle viti, olio nelle ulive».

Benamozegh possiede una grande fede nel miglioramento dell’umanità, nella sua capacità di poter progressivamente sempre più comprendere, percepire non solo con gli occhi, ma anche col cuore, la bontà di quel messaggio divino, di quella Legge assolutamente perfetta proclamata con forza sul Sinai, di cui neppure lo stesso Mosè poteva ancora cogliere totalmente la luce e la grandezza. Significativo è a questo proposito il racconto del Talmud che mostra il Profeta, ormai salito in cielo, intento ad ascoltare Rabbi Aqiva che spiegava a numerosi discepoli la Legge di Dio, insegnando loro cose che Mosè stesso non conosceva né comprendeva. All’improvviso uno dei discepoli chiese ad Aqiva dove avesse imparato tutto quello che stava spiegando. La risposta del Rabbi : «Halakhah le-Mosheh mi-Sinai», cioè «E’ dottrina data a Mosè dal Sinai» rende bene quanto sia forte la convinzione, presente in Benamozegh e profondamente radicata nell’ebraismo, di quel progresso cui sopra abbiamo accennato. Il suono dello shofar, continuo e sempre crescente, che aveva accompagnato il prodigioso evento sul monte, indicava infatti, secondo il nostro Autore, non solo la perpetuità della Legge, ma anche «uno sviluppo sempre maggiore non già in Lei, che è sempre la stessa e sempre assoluta, ma negli uomini che la posseggono, nella sua intelligenza, nella sua pratica, nella sua diffusione». Tale suono inoltre era suono del nuovo Regno di Dio, suono di convocazione e di consacrazione del popolo sacerdote, perché «come la chioccia chiama i suoi pulcini, così la madre pietosa, la Shekhinah, convocava sotto le sue ali amorose ai piedi del Sinai i piccoletti figli».

Nel giorno in cui era stata data la Legge, erano presenti in spirito presso il Sinai , secondo il Midrash Rabbah, non solo tutti i Profeti, ma anche, come sostengono i Dottori, tutte le anime presenti e future d’Israele e tutte le schiere degli Angeli: la terra tremò per ricordare a tutti che nulla è stabile quaggiù tranne Dio sempiterno, una fragranza celeste si diffuse ovunque, profondo fu il silenzio di tutto l’universo, espressione di una grande attesa. Proprio dalla Tradizione, come sottolinea Benamozegh sin dalla sua prima conferenza, veniamo a conoscere quei tanti aspetti della rivelazione del Sinai che non sono narrati nel testo biblico; è inoltre sempre la Tradizione che ci insegna a distinguere nei dieci comandamenti, definiti come “il discorso della corona”, i primi due che furono promulgati direttamente dalla divina onnipotenza dagli altri otto mediati dalla voce di Mosè. L’eterna verità si esprimeva sul Sinai in cento modi bellissimi, modulandosi e proporzionandosi secondo le forze fisiche e morali di ognuno, rivelandosi, come dicono i Dottori del Talmud, in settanta lingue diverse, cioè in tutte le lingue, perché tutti la comprendessero.

Ma a chi la Rivelazione era rivolta? Secondo i testi scritturistici, solo agli uomini in modo diretto, mentre per la Tradizione, che interpreta in modo del tutto particolare le parole della Scrittura: «Parla prima alla casa di Giacobbe e poi ai figli d’Israele», essa in primo luogo era stata data alle donne, definite come “casa di Giacobbe”, in quanto le donne sono generalmente più disposte ai pensieri e alle opere della religione e si occupano dell’educazione della prole. Inoltre, aggiunge Benamozegh con quell’accento scherzoso che spesso troviamo nelle sue conferenze, «perché vedendo Iddio la mala prova che aveva fatto nella creazione il comandare prima all’uomo, trascurando la donna, volle nella Rivelazione cambiare registro per vedere se meglio così avrebbe riscosso la comune obbedienza».

Ancora dalla Tradizione possiamo ricavare la data in cui fu data la Legge, il 6 o il 7 di Siwan, dal momento che la Scrittura non lo dice esplicitamente, pur facendocelo capire. Il tempo primaverile dell’evento, secondo Benamozegh, vuole significare che la religione non deve essere triste, gretta, misantropa, incapace di associare l’amore del bello, della natura, della poesia, all’ossequio dei precetti del Sinai.

Nei testi biblici la festa di Pentecoste era considerata soltanto una festa campestre, collegata alla raccolta del grano, dalla quale però i Dottori avevano tratto spunto per sottolinearne non più semplicemente il carattere agronomico e civile, ma morale e legislativo. Il Decalogo infatti era stato donato al popolo d’Israele affinché fosse da lui interpretato e trasmesso di generazione in generazione fino ai giorni nostri. La Rivelazione era stata così affidata al popolo, che però non doveva ritenere di esserne l’esclusivo possessore: «Guai se Israele si credesse il popolo eletto nel senso odioso della parola, o per dir meglio, il popolo privilegiato. La sua elezione è un ministero, una servitù, una missione, un beneficio a vantaggio dell’universale… Israele sarà un popolo di sacerdoti che officia per il genere umano nel suo santuario, la Palestina». La regola sacerdotale è la Legge mosaica, quella comune è costituita dai precetti noachidi.

Dal Sinai dunque scaturirono tutte le parti della Legge di Dio, tutti i precetti, anche i minimi. Benamozegh pensa che il loro numero sia molto antico, costituito molto prima dell’era rabbinica. Tutto infatti era stato già scritto in forma sintetica in quelle due tavole di pietra, da cui poi i Dottori ricavarono i 613 precetti, cuore pulsante dell’Ebraismo. Se la religione ebraica fosse stata opera di uomo, costui avrebbe cercato di facilitarne l’osservanza per attirare proseliti, Mosè invece fece esattamente tutto l’opposto, prova questa che il durissimo giogo della legge mosaica fu voluto dalla divinità. In particolare nella sua terza conferenza Benamozegh si sofferma a spiegare le valenze del numero 613, sottolineando che fra tutti i precetti 248 sono positivi e 365 negativi. L’antica anatomia riteneva che appunto 248 fossero le parti che compongono il corpo umano, mentre 365 sono i giorni dell’anno solare. Da tutto ciò si deduce, secondo la sua interpretazione, che l’uomo e il mondo, il microcosmo e il macrocosmo, sono retti da una Legge unica, creatrice e conservatrice dell’intero universo. L’uomo che liberamente sceglie di osservare tutti i precetti, o almeno ha il desiderio di farlo pur non avendone la possibilità, può salvarsi anche se ne ha rispettato uno soltanto, afferma il nostro Autore, basandosi su una consolidata tradizione espressa da famosi Dottori.

La legge di Dio inoltre, come sarà immutabile nell’avvenire, così lo è stata anche per il passato. Benamozegh dedica molto spazio a tale affermazione proponendosi di dimostrare la preesistenza del mosaismo allo stesso Mosè con parole appassionate e piene di poesia: «Una verità… si faceva sempre e sempre più sfolgorante nell’animo mio, che la Rivelazione del Sinai non fu una pianta esotica, una novità, un fatto isolato senza precedenti… ebbe un’aurora come ebbe un crepuscolo… Mosè è un sole che sorge con i Patriarchi, tocca il meriggio sul Sinai, scende, declina, tramonta coi Profeti e coi Dottori. Egli sta in mezzo fra le due Tradizioni, l’una sua madre, l’altra sua figlia: una che lo precede, l’altra che lo segue». Si potrebbe ritenere la Rivelazione nata con Adamo quando si legge nel Genesi che «il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel Gan Eden perché lo lavorasse e lo custodisse» (Gn 2,15). Le parole “lo lavorasse” alluderebbero alle miswot positive, mentre a quelle negative farebbe riferimento l’espressione “lo custodisse”. Benamozegh insiste molto sul fatto che tutte la dottrine dell’ebraismo, tutti i suoi “dogmi” sono anteriori a Mosè non solo nei loro aspetti principali, ma anche nei minimi, e presenta per avvalorare la sua tesi una ricca serie di citazioni bibliche. In tal modo egli dimostra come l’esistenza e l’unità di Dio, la sua provvidenza, la creazione del mondo, la Rivelazione, la spiritualità dell’anima, le sue sorti oltremondane, l’esistenza degli Angeli, la necessità del culto e le sue modalità, la fede nella resurrezione, il simbolismo numerico, la benedizione e la santificazione del Sabato, le feste, i sacrifici, tutte le leggi religiose e civili trovino profonda radice nei tempi più antichi per essere poi amorosamente trasmessi di generazione in generazione e per essere osservati anche in avvenire: «Il Sinai non è un punto di partenza né un punto di arrivo… ma una tappa, una gran tappa di una religione nata con il mondo e che col mondo finirà, una stazione fra due paradisi … un mezzogiorno fra due crepuscoli, l’aurora e il tramonto».

Nella parte finale del libro, in particolare nell’ultima conferenza, Benamozegh difende la Rivelazione mosaica dall’accusa di essere un privilegio concesso a un solo popolo a scapito di tutti gli altri, sottolineando con fervore che il Dio d’Israele è anche il Dio di tutti gli altri popoli. Tornando a spiegare ancora una volta il “privilegio” dell’elezione, si ribadisce che essa è innanzitutto una vocazione speciale a servizio di tutta l’umanità: Israele ha infatti il ruolo di mediatore tra la terra e il cielo, tra l’uomo e Dio. Gli Ebrei sono un mezzo dunque e mai un fine, fine che non risiede soltanto nel sacerdozio di Israele: tutto il genere umano infatti sarà benedetto in Israele e attraverso Israele.

Ma la Parola del Signore si presenta in tanti modi anche ai Gentili, arrivando ad essi per mezzo della Rivelazione primitiva concessa ai Patriarchi, attraverso la legge naturale contenuta nel Pentateuco e comune a tutti i figli di Adamo e soprattutto attraverso la voce dei Profeti inviati da Dio come vindici del diritto, dell’innocenza, della giustizia non solo interna, ma di tutte le nazioni. L’umanità forma, spiega Benamozegh, una sola famiglia di cui Dio è il Padre supremo e Israele il figlio primogenito, in quanto fu unico fra tutti i popoli a riconoscere sin dai tempi più antichi il Dio unico e a praticare la sua Legge nell’attesa di tempi più propizi in cui tutto il mondo fosse maturo per riceverla.

Per questo l’ebraismo è duplice: «Egli ha due leggi, due religioni, due regole, due discipline, la noachide… e la mosaica; la prima ad uso delle genti, la seconda d’Israele, la prima legge a tutti comune, regola del laicato universale, la seconda regola del sacerdozio… entrambe divine, eterne, necessarie, utilissime leggi, ma la mosaica ordinata e custodita quasi astuccio, fodero o vagina della noachide e quindi implicante obblighi specialissimi, eccezionali».
Particolarmente significative sono infine le parole con le quali si conclude il libro e che testimoniano il calore e la passione che animavano Benamozegh e che ancora adesso riescono a infondere nel lettore una forte emozione: «L’ebraismo è una meraviglia, un miracolo, un capo d’opera di cosmopolitismo… Una religione siffatta è il più grande dei miracoli… Fermo adunque popolo di Dio nella credenza della sua verità… L’avvenire ti darà ragione come ti ha dato finora e l’Umanità che travagliasi nella ricerca di una religione ti renderà grazie di avergliela serbata incolume contro tutte le seduzioni e contro tutti i pericoli».

Certamente una visione così ottimista dell’avvenire non avrebbe mai potuto immaginare la tragedia che si sarebbe abbattuta sul popolo ebraico nel corso del Novecento… Eppure forse ancora di più, dopo i drammatici eventi del secolo che da poco si è concluso, la voce di Benamozegh è capace di infondere speranza, capacità di resistenza, attaccamento a quei grandi valori nei quali egli aveva creduto.

Il lettore odierno inoltre può rimanere certamente colpito non solo dal contenuto delle conferenze, ma anche dalla piacevolezza del linguaggio, dalla sua particolare vivacità e coloritura, talvolta da una bonaria ironia che certamente dimostrano come il Maestro riuscisse molto bene a catturare l’attenzione del suo pubblico e che ancora adesso possono renderci più gradevole la lettura.

Dopo più di un secolo le riflessioni di Benamozegh non hanno perduto la loro validità, anzi forse possono essere comprese e condivise meglio oggi di quando sono state esposte per la prima volta, grazie proprio a quel “progresso” delle coscienze in cui il Maestro aveva posto tanto grande fiducia. In tale ottica le cinque conferenze su Shavuot possono offrire un notevole contributo all’approfondimento del significato di una festa molto importante per l’ebraismo, ma possono altresì stimolare una riflessione sulle radici della Pentecoste cristiana raccontata negli Atti degli Apostoli, che a Shavuot strettamente si ricollega (basti pensare, ad esempio, al fragore che si diffonde nel Cenacolo e che ricorda la voce dello shofar, o al miracolo delle lingue che si ricollega alla Rivelazione sinaitica avvenuta in settanta lingue diverse per indicare che era rivolta a tutta l’umanità).

Giudico infine molto importante il contenuto del libro anche come contributo alla rimozione di quel turpe pregiudizio che per secoli – e purtroppo in qualche caso ancora oggi – ha portato e porta ancora a non comprendere correttamente e quindi ad interpretare in modo gravemente distorto il significato dell’elezione di Israele. La consapevolezza della dignità del suo regale sacerdozio esercitato in favore di tutta l’umanità dovrebbe essere presente in chiunque si dichiari amico del suo popolo, contribuendo così alla creazione di legami sempre più profondi di rispetto e di amicizia in vista della costruzione di un futuro migliore per tutta l’umanità.

 

Shavuot/Pentecoste

  Il dono della Torah

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