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La lettera di Laura Malchiodi a Papa Francesco

La lettera di Laura Malchiodi a Papa Francesco

Dopo il riconoscimento dello Stato di Palestina da parte della santa sede 

Sua Santità, Le scrivo, ancora, perché trovo sempre più difficile considerarmi Cattolica. Eppure sono sempre stata molto vicina alla Chiesa, grazie anche al fatto che provengo da una famiglia molto religiosa, con due pro-zii Vescovi (Umberto Malchiodi, Vescovo di Piacenza e Gaetano Malchiodi, Vescovo a Loreto, erano fratelli di mio nonno Aldo)… ma non solo per questo. La lettura dei Vangeli, che ho cominciato alle medie e quella della Bibbia, che ho iniziato ad affrontare nel 1972, a 15 anni (grazie al regalo di zio don Umberto), mi hanno sempre più coinvolta. Ho poi conosciuto Madre Speranza, che mi ha detto che sarei rimasta delusa dalla Chiesa, ma che avrei dovuto lottare contro le sue storture e non avrei dovuto abbandonarla… Lei mi sta rendendo estremamente difficile mantenere questa promessa. Oggi, per la prima volta nella mia vita, non me la sento di andare a Messa.

E pensare che ero così felice quando L’ho vista la prima volta!

La Sua scelta del nome Francesco (il mio Santo preferito) mi aveva fatto sperare che Lei volesse in qualche modo testimoniare il suo distacco dai capitoli bui della nostra storia, che hanno visto i Gesuiti come protagonisti di pogrom e persecuzioni orribili nei confronti degli Ebrei… ma evidentemente mi sbagliavo. 

E non Le scrivo solo a mio nome. Miei amici, conoscenti e parenti ogni giorno mi confessano il loro imbarazzo profondo e la crisi che stanno attraversando, grazie a Lei.

Le sue gaffes imbarazzanti in occasione del suo viaggio in Israele e in Cisgiordania… il suo assordante silenzio in occasione del rapimento dei tre ragazzi israeliani e la sua sollecita preghiera in occasione della tragica vendetta su un ragazzo palestinese, … la Sua assenza al Convegno ecumenico di Salerno dello scorso novembre (ha preferito andare ad elogiare il fedele alleato di Hamas, in Turchia),… e adesso il suo riconoscimento dello Stato Palestinese e la sua elezione di un capo terrorista ad “angelo della pace”… mi hanno sconvolta e profondamente ferita.

In questi mesi mi sono domandata il perché.

Ho pensato che forse Lei non ha letto mai gli statuti di Olp e Hamas, che negano in assoluto la possibilità di esistere a Israele (se è questo il caso, La invito a farlo subito). Condivido l’opinione che la pace in Israele potrà essere raggiunta solo attraverso negoziati che prevedano due Stati, e credo che sia questo il punto che l’Occidente dovrebbe sottolineare e pretendere, anche e soprattutto dai Palestinesi. È infatti noto che è questo il punto dolente, perché per Statuto, sia Olp che Hamas non possono accettare l’esistenza dello Stato ebraico israeliano ed è su questo punto, su questa richiesta di RECIPROCITÀ, che si sono arenati tutti i negoziati di pace.

L’Occidente finge di sostenere Israele, ma accetta che Israele non possa scegliere la propria capitale storica, Gerusalemme, perché l’idea non piace ai Palestinesi. E ai Palestinesi l’idea non piace perché per negare il futuro al popolo israeliano, negano anche la loro storia e la loro presenza millenaria in quei territori. (Stanno negando anche la nostra storia, al punto da dichiarare che Abramo e Gesù non erano ebrei, ma palestinesi… e celebrando la Liturgia a Betlemme con alle spalle quel manifesto di propaganda palestinese, Lei ha avvalorato – spero inconsapevolmente – questa assurda tesi…). Una cosa analoga è avvenuta in Armenia circa cento anni fa, e anche allora l’Occidente ha assistito indifferente (quando non ha collaborato attivamente) al genocidio armeno che ne è seguito.

Mi sono detta che forse non ha saputo della sentenza emessa dalla corte francese di Versailles, del 2013 (ed è risaputo che la Francia con Ebrei e Israele non è affatto tenera!). In questa occasione, il tribunale di Versailles ha stabilito che – secondo il diritto internazionale – quella di Giudea e Samaria è un’occupazione legittima, che non viola nessuna norma internazionale, contrariamente a quanto sostiene la propaganda di Olp e Anp, propaganda che – come sottolineato nella sentenza di Versailles – non costituisce diritto internazionale.

O forse, mi sono detta, non ha saputo che recentemente Anp e Olp e Hamas sono stati accusati di terrorismo da un altro tribunale, a New York. Anche il Suo interlocutore preferito, “l’angelo della pace” Abu Mazen, è stato condannato per atti terrorismo in questa occasione… E una banca giordana è stata multata per aver finanziato, con prestiti, il terrorismo di Hamas. (E questo dovrebbe mettere in serio imbarazzo anche l’Europa, che da anni offre generosi finanziamenti ai Palestinesi, senza preoccuparsi di come vengono utilizzati).

Ma mi sono anche detta che una persona che sta utilizzando il potere politico che ha Lei, non può non aver prima studiato con attenzione la situazione e la storia di quei territori quindi Le chiedo: perché?

Perché non ha reagito neppure alla richiesta europea e dell’Italia dell’etichettatura obbligatoria per le aziende israeliane che operano in Samaria e Giudea?

È difficile capire questa scelta italiana, anche considerando le ripetute promesse del nostro Governo di sostenere Israele, in quanto unico Stato democratico in mezzo ad una polveriera impazzita e minacciato seriamente dall’Iran.

È evidente che lo scopo della richiesta dell’etichettatura è finalizzata ad un prossimo boicottaggio, già in uso presso le cooperative italiane – e non solo – e che tanto ricorda le prime leggi razziali del periodo fascista… Davvero non comprende che cosa significa boicottare le aziende israeliane, dove lavorano anche molti arabi palestinesi e israeliani? Significa boicottare la normalizzazione, l’integrazione, la dignità di quel popolo, dignità che si ottiene con il lavoro, come Lei stesso ultimamente ha spesso ripetuto in riferimento alla disoccupazione in Italia. E boicottare questo, boicottare la normalizzazione, significa boicottare la pace.

Gli oltre 800.000 ebrei che vivevano da secoli nei paesi arabi, che dalla fine degli anni ’40 sono stati espropriati di soldi, case e terreni (i terreni espropriati corrispondevano a circa 5 volte lo Stato di Israele), sono stati accolti dal piccolo neonato stato israeliano e hanno avuto la possibilità di ricostruirsi una vita. Possibilità negata ai profughi palestinesi, visto che i Paesi arabi hanno rifiutato anche la proposta di dare loro parte delle ricchezze e dei terreni espropriati agli ebrei. Possibilità negata perché solo costringendoli a vivere da profughi, in cattività, impediscono loro di sentirsi uomini liberi e quindi non desiderosi di recriminare diritti assurdi (perché solo ai discendenti dei palestinesi questo diritto? Perché non ai discendenti degli ebrei? O degli italiani cacciati dall’Istria?…)

Ha mai pensato a cosa può condurre la Sua politica per i figli e i nipoti di quegli ebrei, che con tanta fatica si sono ricostruiti una vita, in Israele? Davvero considera giusto e legittimo sostenere chi li vuole – ancora una volta – cacciare ed espropriare di tutto? Anche della loro vita?

Sono trascorsi solo 70 anni dalla nostra presunta liberazione dal nazismo, dalle leggi razziali, da un antisemitismo becero e vergognoso. Cinquant’anni fa, veniva firmato il documento Nostra Aetate che avrebbe dovuto modificare radicalmente anche i rapporti tra Chiesa e mondo ebraico, aprendoci ad un dialogo onesto e alla pari (e non si immagina quanto mi renda orgogliosa l’ultima firma di quel documento!)

Eppure oggi, come negli anni ’20, stiamo ripercorrendo la stessa strada, commettendo gli stessi errori. E questo fa molto male.
E fa ancora più male assistere, ancora, impotenti, a certi comportamenti antisemiti in seno alla Chiesa…. ai vertici della Chiesa.
Sembra che quello che Le interessa non sia la pace in quei territori martoriati, ma colpire gli Ebrei…
Devo pensare che lo faccia per salvaguardare la vita dei cristiani in Medio Oriente e in Occidente? La storia ci insegna a non fidarci di tali alleanze! Oltre al fatto che noi Cristiani siamo chiamati a fare scelte coraggiose! E il Vescovo di Roma dovrebbe essere il primo a dare l’esempio…

Le ho già scritto altre volte… allora speravo in una Sua risposta, perché lo stato in cui mi trovo – soprattutto per questi motivi – è davvero grave. Anche stanotte non ho dormito e Le ho twittato… ma evidentemente non Le interessa l’avermi ferita, così profondamente. D’altra parte chi sono io, per destare il Suo interesse?

Mi scuso per la durezza della mia lettera… ma quando sto male mi è difficile nascondere il mio stato e la gravità dei suoi ultimi atti non mi ha dato scelta.

Continuerò a pregare per Lei e perché il Signore mi aiuti a perdonarLa.

Laura Malchiodi 

Fonte: www.Kolot.it

18 maggio 2015

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Palestina e dintorni…?

Palestina e dintorni…?

Egregio signore/a, sarebbe così gentile da rispondere a qualche domanda? Se lei è così sicuro che la “Palestina” sia stata fondata molti secoli fa, ben prima della presenza degli ebrei e abbia lasciato tracce nella storia, beni culturali da conservare, eredità da difendere, certamente lei sarà in grado di rispondere alle seguenti domande: Quando è stata fondata e da chi? Quali erano i suoi confini? Qual era la sua capitale? Quali erano le sue città più importanti? Qual era la base della sua economia? Qual era la sua forma di governo? Può citare almeno un leader palestinese prima di Arafat e di Amin Al Husseini, il muftì di Gerusalemme amico di Hitler?

La “Palestina” è stata mai riconosciuta da un paese la cui esistenza a quel tempo non lascia spazio a discussioni? Qual era la lingua parlata nello stato di Palestina prima degli ebrei? Avevano un sistema politico? Il loro sovrano portava un titolo? C’era un parlamento o un consiglio? Hanno combattuto delle battaglie? C’è un qualche libro palestinese prima del Novecento? Può nominare uno scrittore palestinese, un pittore, uno scultore, un musicista, un architetto palestinese prima di tale data? Esiste un piatto tipico palestinese, che lei sappia? Un costume caratteristico?

Che religione aveva la Palestina prima di Maometto? Qual era il nome della sua moneta? Ne esistono degli esemplari in qualche museo? Scelga pure una data nel passato anche recente e ci dica: qual era il tasso di cambio della moneta palestinese nei confronti del dollaro, yen, franco, ecc.? Poiché questo paese oggi non esiste, può spiegare la ragione per cui ha cessato di esistere? E può specificarne la data di estinzione? Se la sua organizzazione piange per il destino dei poveri palestinesi “occupati”, mi può dire quando questo paese era orgoglioso e indipendente? Se le persone che, a torto o a ragione, chiamate palestinesi non sono solo una collezione di immigrati dai paesi arabi e se davvero hanno una identità definita etnica che assicura il diritto di autodeterminazione, mi sa spiegare perché non hanno cercato di essere indipendenti dai paesi arabi prima della devastante sconfitta nella Guerra dei Sei Giorni? Perché datano l’”occupazione” dal ’67, se prima i “territori palestinesi” erano governati da stati “non palestinesi” come l’Egitto e la Giordania?

Le ho fatto tante domande, mi auguro che potrà rispondere almeno a qualcuna. Finisco solo con una nota: spero che lei non confonda i palestinesi con i Filistei, che erano una popolazione marittima di lingua indoeuropea (i popoli del mare) che fecero un’invasione in terra d’Israele, come anche in Egitto e nell’attuale Libano verso il nono secolo a.C. Il solo rapporto è l’invenzione romana che dopo la distruzione del Tempio, nel I secolo, ribattezzò quelle terre per spregio con il nome di un antico nemico dei ribelli ebrei. L’etimologia non è storia. Altre domande scomode: Come mai non è nato uno Stato palestinese tra il ’48 e il ’67? E poi un’altra domanda: come sono stati trattati i profughi palestinesi dai fratelli arabi prima e dopo il ’67, dopo ma anche prima sottolineo? Conoscete gli orrori del “Settembre nero” in Giordania? Conoscete il ruolo della Siria nel massacro del campo di Tal el Zatar? Ma soprattutto: sapete che se i palestinesi avessero accettato il piano di spartizione dell’ ONU, oggi avremmo due popoli e due Stati? Non c’era bisogno di tante guerre e tanto spargimento di sangue se gli arabi e i palestinesi avessero accettato il diritto degli ebrei ad avere uno Stato. Questo pochi lo sanno. Pochi lo vogliono sapere. E’ possibile che 20 anni dopo Oslo, miliardi di dollari, miliardi di euro, aiuti da tutto il mondo, compreso Israele, l’Autorità Palestinese non sia stata capace di costruire un solo ospedale moderno, una qualsiasi struttura e continui a piangere miseria? Questa è la domanda che molti si fanno, per “molti” intendo le persone pensanti, non certo i pacifisti filopalestinesi o i sinistri antisraeliani che continuano il boicottaggio contro Israele, accecati dall’odio e dalla loro criminale ideologia. Allora? Qualcuno sa dirmi dove sono finiti i miliardi e perché l’ANP (per non parlare di Gaza) pullula di villone con piscina di proprietà dei capi e capetti palestinesi mentre non esiste un ospedale degno di questo nome, non esistono università se non quelle dove si allevano amorevolmente giovani fanatici destinati a diventare possibili terroristi, (es.: Bir Zeit)?

Qualcuno sa dirmi perché, letteralmente affogati, alla Paperon de’ Paperoni, nei miliardi che il mondo manda da decenni all’ANP, miliardi che avrebbero potuto ricoprire d’oro ogni casa palestinese e rendere ricco ogni singolo abitante, miliardi che avrebbero potuto costruire ospedali e atenei all’avanguardia, la popolazione palestinese vive male e chi ha bisogno di cure serie deve venire in Israele o andare in qualche altro paese disposto ad accoglierli e a curarli gratis? Alcune persone dicono che gli arabi sono “nativi palestinesi”, mentre gli ebrei sono “invasori” e ”colonizzatori”. Quindi, io ho letto le biografie dei leader israeliani e palestinesi e sono diventato confuso.

Ecco chi tra i leader israeliani e palestinesi è nato il in Palestina: Leaders israeliani: BENJAMIN NETANYAHU, nato il 21 ottobre 1949 a Tel Aviv. EHUD BARAK, nato il 12 febbraio 1942 a Mishmar HaSharon, Mandato britannico della Palestina. ARIEL SHARON, nato il 26 febbraio 1928 a Kfar Malal, Mandato britannico della Palestina. EHUD OLMERT, nato il 30 settembre 1945 a Binyamina-Giv’at Ada, Mandato britannico della Palestina. ITZHAK RABIN, nato il 1 Marzo 1922 a Gerusalemme, Mandato britannico della Palestina. ITZHAK NAVON, Presidente israeliano nel 1977-1982, nato il 9 aprile 1921 a Gerusalemme, Mandato britannico della Palestina. EZER WEIZMAN, Presidente israeliano nel 1993-2000, nato il 15 giugno 1924 a Tel Aviv, Mandato britannico della Palestina.

Leader arabi “palestinesi”: YASSER ARAFAT, nato il 24 agosto 1929 al Cairo, Egitto. SAEB EREKAT, nato il 28 Aprile 1955, in Giordania. Ha la cittadinanza giordana. FAISAL ABDEL QADER AL-HUSSEINI, nato il 1948 a Bagdad, Iraq. SARI NUSSEIBEH, nato il 1949 a Damasco, Siria. MAHMOUD AL-ZAHAR, nato il 1945 al Cairo, Egitto.

Quindi i leader israeliani, che sono nati in Palestina, sono colonizzatori o invasori. Mentre i leader arabi palestinesi che sono nati in Egitto, Siria, Iraq e Tunisia sono nativi palestinesi? Isola che non c’è.
Mario Barzon

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La lettera di Laura Malchiodi al Papa

La lettera di Laura Malchiodi al Papa

Dopo il riconoscimento dello Stato di Palestina da parte della santa sede

Sua Santità, Le scrivo, ancora, perché trovo sempre più difficile considerarmi Cattolica. Eppure sono sempre stata molto vicina alla Chiesa, grazie anche al fatto che provengo da una famiglia molto religiosa, con due pro-zii Vescovi (Umberto Malchiodi, Vescovo di Piacenza e Gaetano Malchiodi, Vescovo a Loreto, erano fratelli di mio nonno Aldo)… ma non solo per questo. La lettura dei Vangeli, che ho cominciato alle medie e quella della Bibbia, che ho iniziato ad affrontare nel 1972, a 15 anni (grazie al regalo di zio don Umberto), mi hanno sempre più coinvolta. Ho poi conosciuto Madre Speranza, che mi ha detto che sarei rimasta delusa dalla Chiesa, ma che avrei dovuto lottare contro le sue storture e non avrei dovuto abbandonarla… Lei mi sta rendendo estremamente difficile mantenere questa promessa. Oggi, per la prima volta nella mia vita, non me la sento di andare a Messa.

E pensare che ero così felice quando L’ho vista la prima volta!

La Sua scelta del nome Francesco (il mio Santo preferito) mi aveva fatto sperare che Lei volesse in qualche modo testimoniare il suo distacco dai capitoli bui della nostra storia, che hanno visto i Gesuiti come protagonisti di pogrom e persecuzioni orribili nei confronti degli Ebrei… ma evidentemente mi sbagliavo.

E non Le scrivo solo a mio nome. Miei amici, conoscenti e parenti ogni giorno mi confessano il loro imbarazzo profondo e la crisi che stanno attraversando, grazie a Lei.

Le sue gaffes imbarazzanti in occasione del suo viaggio in Israele e in Cisgiordania… il suo assordante silenzio in occasione del rapimento dei tre ragazzi israeliani e la sua sollecita preghiera in occasione della tragica vendetta su un ragazzo palestinese, … la Sua assenza al Convegno ecumenico di Salerno dello scorso novembre (ha preferito andare ad elogiare il fedele alleato di Hamas, in Turchia),… e adesso il suo riconoscimento dello Stato Palestinese e la sua elezione di un capo terrorista ad “angelo della pace”… mi hanno sconvolta e profondamente ferita.

In questi mesi mi sono domandata il perché.

Ho pensato che forse Lei non ha letto mai gli statuti di Olp e Hamas, che negano in assoluto la possibilità di esistere a Israele (se è questo il caso, La invito a farlo subito). Condivido l’opinione che la pace in Israele potrà essere raggiunta solo attraverso negoziati che prevedano due Stati, e credo che sia questo il punto che l’Occidente dovrebbe sottolineare e pretendere, anche e soprattutto dai Palestinesi. È infatti noto che è questo il punto dolente, perché per Statuto, sia Olp che Hamas non possono accettare l’esistenza dello Stato ebraico israeliano ed è su questo punto, su questa richiesta di RECIPROCITÀ, che si sono arenati tutti i negoziati di pace.

L’Occidente finge di sostenere Israele, ma accetta che Israele non possa scegliere la propria capitale storica, Gerusalemme, perché l’idea non piace ai Palestinesi. E ai Palestinesi l’idea non piace perché per negare il futuro al popolo israeliano, negano anche la loro storia e la loro presenza millenaria in quei territori. (Stanno negando anche la nostra storia, al punto da dichiarare che Abramo e Gesù non erano ebrei, ma palestinesi… e celebrando la Liturgia a Betlemme con alle spalle quel manifesto di propaganda palestinese, Lei ha avvalorato – spero inconsapevolmente – questa assurda tesi…). Una cosa analoga è avvenuta in Armenia circa cento anni fa, e anche allora l’Occidente ha assistito indifferente (quando non ha collaborato attivamente) al genocidio armeno che ne è seguito.

Mi sono detta che forse non ha saputo della sentenza emessa dalla corte francese di Versailles, del 2013 (ed è risaputo che la Francia con Ebrei e Israele non è affatto tenera!). In questa occasione, il tribunale di Versailles ha stabilito che – secondo il diritto internazionale – quella di Giudea e Samaria è un’occupazione legittima, che non viola nessuna norma internazionale, contrariamente a quanto sostiene la propaganda di Olp e Anp, propaganda che – come sottolineato nella sentenza di Versailles – non costituisce diritto internazionale.

O forse, mi sono detta, non ha saputo che recentemente Anp e Olp e Hamas sono stati accusati di terrorismo da un altro tribunale, a New York. Anche il Suo interlocutore preferito, “l’angelo della pace” Abu Mazen, è stato condannato per atti terrorismo in questa occasione…. E una banca giordana è stata multata per aver finanziato, con prestiti, il terrorismo di Hamas. (E questo dovrebbe mettere in serio imbarazzo anche l’Europa, che da anni offre generosi finanziamenti ai Palestinesi, senza preoccuparsi di come vengono utilizzati).

Ma mi sono anche detta che una persona che sta utilizzando il potere politico che ha Lei, non può non aver prima studiato con attenzione la situazione e la storia di quei territori… quindi Le chiedo: perché?

Perché non ha reagito neppure alla richiesta europea e dell’Italia dell’etichettatura obbligatoria per le aziende israeliane che operano in Samaria e Giudea?

È difficile capire questa scelta italiana, anche considerando le ripetute promesse del nostro Governo di sostenere Israele, in quanto unico Stato democratico in mezzo ad una polveriera impazzita e minacciato seriamente dall’Iran.

È evidente che lo scopo della richiesta dell’etichettatura è finalizzata ad un prossimo boicottaggio, già in uso presso le cooperative italiane – e non solo – e che tanto ricorda le prime leggi razziali del periodo fascista… Davvero non comprende che cosa significa boicottare le aziende israeliane, dove lavorano anche molti arabi palestinesi e israeliani? Significa boicottare la normalizzazione, l’integrazione, la dignità di quel popolo, dignità che si ottiene con il lavoro, come Lei stesso ultimamente ha spesso ripetuto in riferimento alla disoccupazione in Italia. E boicottare questo, boicottare la normalizzazione, significa boicottare la pace.

Gli oltre 800.000 ebrei che vivevano da secoli nei paesi arabi, che dalla fine degli anni ’40 sono stati espropriati di soldi, case e terreni (i terreni espropriati corrispondevano a circa 5 volte lo Stato di Israele), sono stati accolti dal piccolo neonato stato israeliano e hanno avuto la possibilità di ricostruirsi una vita. Possibilità negata ai profughi palestinesi, visto che i Paesi arabi hanno rifiutato anche la proposta di dare loro parte delle ricchezze e dei terreni espropriati agli ebrei. Possibilità negata perché solo costringendoli a vivere da profughi, in cattività, impediscono loro di sentirsi uomini liberi e quindi non desiderosi di recriminare diritti assurdi (perché solo ai discendenti dei palestinesi questo diritto? Perché non ai discendenti degli ebrei? O degli italiani cacciati dall’Istria?…)

Ha mai pensato a cosa può condurre la Sua politica per i figli e i nipoti di quegli ebrei, che con tanta fatica si sono ricostruiti una vita, in Israele? Davvero considera giusto e legittimo sostenere chi li vuole – ancora una volta – cacciare ed espropriare di tutto? Anche della loro vita?

Sono trascorsi solo 70 anni dalla nostra presunta liberazione dal nazismo, dalle leggi razziali, da un antisemitismo becero e vergognoso. Cinquant’anni fa, veniva firmato il documento Nostra Aetate che avrebbe dovuto modificare radicalmente anche i rapporti tra Chiesa e mondo ebraico, aprendoci ad un dialogo onesto e alla pari (e non si immagina quanto mi renda orgogliosa l’ultima firma di quel documento!)

Eppure oggi, come negli anni ’20, stiamo ripercorrendo la stessa strada, commettendo gli stessi errori. E questo fa molto male.
E fa ancora più male assistere, ancora, impotenti, a certi comportamenti antisemiti in seno alla Chiesa…. ai vertici della Chiesa.
Sembra che quello che Le interessa non sia la pace in quei territori martoriati, ma colpire gli Ebrei…
Devo pensare che lo faccia per salvaguardare la vita dei cristiani in Medio Oriente e in Occidente? La storia ci insegna a non fidarci di tali allenze! Oltre al fatto che noi Cristiani siamo chiamati a fare scelte coraggiose! E il Vescovo di Roma dovrebbe essere il primo a dare l’esempio…

Le ho già scritto altre volte… allora speravo in una Sua risposta, perché lo stato in cui mi trovo – soprattutto per questi motivi – è davvero grave. Anche stanotte non ho dormito e Le ho twittato… ma evidentemente non Le interessa l’avermi ferita, così profondamente. D’altra parte chi sono io, per destare il Suo interesse?

Mi scuso per la durezza della mia lettera… ma quando sto male mi è difficile nascondere il mio stato e la gravità dei suoi ultimi atti non mi ha dato scelta.

Continuerò a pregare per Lei e perché il Signore mi aiuti a perdonarLa.

Laura Malchiodi

Fonte: www.Kolot.it

18 maggio 2015

Antisemitismo, Comunità Ebraiche, Cristianesimo, IsraeleTag:Abu Mazen,Palestina, Papa Francesco

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Io, rifugiato Palestimese

Io, rifugiato Palestimese

Discorso pronunciato da George Deek, vice ambasciatore di Israele a Oslo, il 27 settembre 2014

George Deek è un arabo israeliano, cristiano ortodosso.


Quando passeggio per le vie della mia città natale, Jaffa, mi ricordo dell’anno 1948.
I viali della città vecchia, le case del quartiere Ajami, le reti da pesca al porto – tutto sembra raccontare storie diverse sull’anno che ha cambiato per sempre la mia città. Una di queste storie riguarda una delle più antiche famiglie di questa antica città – la famiglia Deek – la mia. 
Prima del 1948 mio nonno George, di cui mi è stato dato il nome, lavorava come elettricista alla compagnia elettrica Rotenberg. Non si interessava molto alla politica. E dato che Jaffa era una città mista, aveva naturalmente degli amici ebrei.

Infatti i suoi amici alla compagnia elettrica gli insegnarono persino lo yiddish, facendo di lui uno dei primi arabi a parlare questa lingua.

Nel 1947 si fidanzò con Vera – mia nonna – e avevano programmato di fondare una famiglia nella stessa città, Jaffa, in cui la famiglia Deek era vissuta per circa 400 anni. Ma pochi mesi dopo i loro programmi cambiarono, letteralmente, da un giorno all’altro.

Quando l’ONU approvò la fondazione di Israele, e pochi mesi più tardi fu proclamato lo stato di Israele, i leader arabi avvertirono gli arabi che gli ebrei stavano programmando di ucciderli se fossero rimasti nelle loro case, e usarono come esempio il massacro di Deir Yassin. Dissero a tutti: «Lasciate le vostre case e scappate via». Dissero che servivano solo pochi giorni, nei quali con cinque eserciti promettevano di distruggere la neonata Israele. La mia famiglia, inorridita da ciò che poteva accadere, decise di fuggire, con molti altri. Fecero venire un prete di corsa alla casa della famiglia Deek, che in fretta e furia sposò i miei nonni, George e Vera, nella casa.

Mia nonna non ebbe neppure modo di vestirsi in modo appropriato. Dopo l’improvviso matrimonio, tutta la famiglia fuggì a nord, verso il Libano.

Ma quando la guerra giunse al termine, gli arabi non erano riusciti a distruggere Israele. La mia famiglia era dall’altra parte del confine, e sembrò che il destino della famiglia Deek fosse di essere dispersa per il mondo. Oggi ho parenti in Giordania, Siria, Libano, Dubai, Gran Bretagna, Canada, Stati Uniti, Australia e altro ancora. La storia della mia famiglia è solo una – e probabilmente non la peggiore – delle tante storie tragiche dell’anno 1948. E, in tutta franchezza, non c’è bisogno di essere antiisraeliani per riconoscere il disastro umanitario dei palestinesi nel 1948, denominato la nakba. Il fatto che io debba comunicare con skype con dei parenti in Canada che non parlano arabo, o che abbia un cugino in un Paese arabo che non ne ha ancora la cittadinanza nonostante sia di terza generazione – è una testimonianza vivente delle tragiche conseguenze della guerra.

Secondo l’ONU, 711.000 palestinesi sono diventati profughi – questo lo sappiamo già – alcuni fuggiti, altri espulsi con la forza. Contemporaneamente, a causa della nascita di Israele, 800.000 ebrei furono costretti a lasciare il mondo arabo, lasciandolo per lo più privo di ebrei. E, come già avevamo saputo, non furono rare le atrocità da entrambe le parti.

Ma questo conflitto non sembra essere stato l’unico ad avere provocato espulsioni e trasferimenti durante il XIX e il XX secolo. Fra il 1821 e il 1922, 5 milioni di musulmani furono espulsi dall’Europa, per lo più verso la Turchia. Negli anni ‘90 la Yugoslavia esplose, facendo circa 100.000 morti e circa 3 milioni di profughi.

Dal 1919 al 1949, durante l’operazione Visla fra la Polonia e l’Ucraina, 150.000 persone morirono e un milione e mezzo divennero profughi. Dopo la seconda guerra mondiale e la convenzione di Potsdam, si spostarono fra i 12 e i 17 milioni di tedeschi. Quando l’India e il Pakistan si separarono, furono trasferiti circa 15 milioni di persone.

Questa tendenza esiste anche in Medio Oriente: per esempio 1,1 milioni di curdi spostati dagli ottomani, 2,2 milioni di cristiani espulsi dall’Iraq, e parlando di oggi, yazidi, bahai, curdi, cristiani e anche musulmani vengono assassinati ed espulsi in seguito all’ascesa dell’islam radicale a un tasso di un migliaio al mese. La possibilità che qualcuno di questi gruppi possa fare ritorno alle proprie case è praticamente nulla.

E allora perché le tragedie dei serbi, dei musulmani europei, dei rifugiati polacchi o dei cristiani iracheni non vengono commemorate? Com’è che la cacciata degli ebrei dal mondo arabo è stata completamente dimenticata mentre la tragedia dei palestinesi, la nakba, è ancora viva nella politica attuale? A me sembra che ciò avvenga perché la nakba è stata trasformata da disastro umanitario in una offensiva politica.

La commemorazione della nakba non riguarda più il ricordo di ciò che è accaduto, bensì il risentimento per la pura e semplice esistenza di Israele. E la prova più evidente è la data scelta per commemorarla: la nakba non è il 9 aprile, giorno del massacro di Deir Yassin, o il 13 luglio, giorno dell’espulsione da Lod. Il giorno della nakba è stato stabilito il 15 maggio, il giorno successivo alla proclamazione dell’indipendenza di Israele. Con questo la dirigenza palestinese dichiara che il disastro non è l’espulsione, i villaggi abbandonati o l’esilio – la nakba, ai loro occhi, è la creazione di Israele. La rinascita dello stato ebraico li rattrista più della catastrofe umanitaria abbattutasi sui palestinesi. In altre parole, non compiangono il fatto che i miei cugini sono giordani, compiangono il fatto che io sono israeliano.

In tal modo i palestinesi sono divenuti schiavi del loro passato, legati con le catene del risentimento, prigionieri in un mondo di frustrazione e di odio.

Ma, amici, la pura e semplice verità è che per non ridursi a vivere di dolore e amarezza, dobbiamo guardare avanti. Per essere ancora più chiari: per riparare il passato bisogna prima assicurare il futuro. Questo l’ho imparato dal mio maestro di musica, Avraham Nov. Quando avevo sette anni sono entrato nella banda della comunità arabo-cristiana di Jaffa. È lì che ho incontrato Avraham, il mio maestro di musica, che mi ha insegnato a suonare il flauto e poi il clarinetto. Ero bravo. Avraham è un sopravvissuto all’olocausto, e tutta la sua famiglia è stata assassinata dai nazisti. È stato l’unico che è riuscito a sopravvivere, perché un certo ufficiale nazista lo ha trovato dotato nel suonare l’armonica, e così durante la guerra lo ha preso in casa per intrattenere i suoi ospiti.

Finita la guerra, e rimasto solo, avrebbe potuto sedersi a piangere e lamentarsi per il più grande crimine dell’uomo contro l’uomo nella storia e per il fatto di essere rimasto solo. Ma non lo ha fatto: ha guardato avanti, non indietro. Ha scelto la vita, non la morte; la speranza, piuttosto che la disperazione. Avraham è venuto in Israele, si è sposato, ha costruito una famiglia, e ha cominciato a insegnare la stessa cosa che gli aveva salvato la vita – la musica. E quando ha visto salire la tensione fra arabi ed ebrei, questo sopravvissuto all’olocausto ha deciso di insegnare la speranza attraverso la musica a centinaia di bambini arabi come me.

I sopravvissuti all’olocausto come Avraham sono fra le persone più straordinarie che possiate trovare. Sono sempre stato curioso di capire come potessero continuare a vivere sapendo ciò che sapevano, avendo visto ciò che avevano visto. Ma per tutti i 15 anni in cui sono stato studente di Avraham, non ha mai parlato del suo passato, tranne una volta – quando io ho chiesto di sapere. Mi sono reso conto che Avraham non era il solo, e che molti sopravvissuti all’olocausto non parlavano di quegli anni, neppure alle loro famiglie, a volte per decenni, o addirittura per sempre.

Solo quando avevano assicurato il futuro si concedevano di voltarsi indietro a guardare il passato. Solo dopo aver costruito un tempo di speranza permettevano a se stessi di ricordare i giorni della disperazione. Hanno costruito il futuro nella loro vecchia-nuova patria, lo stato di Israele. E sotto il peso della loro più grande tragedia, gli ebrei sono riusciti a costruire uno stato leader nel mondo in medicina, agricoltura, tecnologia. Perché? Perché hanno guardato avanti.

Amici, questa è una lezione che ogni nazione desiderosa di superare una tragedia dovrebbe imparare, compresi i palestinesi. Se i palestinesi vogliono riscattare il passato, devono innanzitutto concentrarsi ad assicurare un futuro, a costruire un mondo come dovrebbe essere, come i nostri figli meritano che sia.

E il primo passo in questa direzione, non c’è ombra di dubbio, è di porre fine al vergognoso trattamento dei rifugiati palestinesi. Nel mondo arabo i rifugiati palestinesi, compresi i loro figli, nipoti e anche pronipoti hanno ancora sistemazioni provvisorie, sono pesantemente discriminati e sono quasi sempre negati loro la cittadinanza e i più elementari diritti umani. Perché i miei parenti in Canada sono cittadini canadesi, mentre i miei parenti in Siria, Libano o nei Paesi del Golfo – che sono nati lì e non conoscono nessun’altra patria – sono ancora considerati rifugiati? Il trattamento dei palestinesi nei Paesi arabi è indubbiamente la più grande oppressione subita in qualunque parte del mondo. E i complici in questo crimine sono la comunità internazionale e le Nazioni Unite.

Invece di svolgere il proprio compito e aiutare i rifugiati a rifarsi una vita, la comunità internazionale sta nutrendo la narrativa del vittimismo. Mentre per tutti i rifugiati del mondo c’è un’unica agenzia ONU, l’UNHCR, un’altra agenzia è stata istituita per occuparsi unicamente di quelli palestinesi, l’UNRWA.

Non è una coincidenza: mentre lo scopo dell’UNHCR è di aiutare i rifugiati a trovare una nuova sistemazione, costruirsi un futuro e porre fine alla loro condizione di rifugiati, lo scopo dell’UNRWA è l’opposto: perpetuare la loro condizione di rifugiati e impedire loro di iniziare una nuova vita. La comunità internazionale non può seriamente immaginare che il problema dei rifugiati si risolva, mentre collabora con il mondo arabo nel trattare i rifugiati come pedine politiche, negando loro i diritti basilari .

Dove ai rifugiati palestinesi sono stati garantiti pari diritti, là essi hanno prosperato e contribuito alla loro società: in Sud America, negli Stati Uniti e anche in Israele. Infatti Israele è stato uno dei pochi Paesi che hanno automaticamente dato piena cittadinanza e uguaglianza a tutti i palestinesi in esso residenti dopo il ’48. E ne vediamo i risultati: nonostante tutte le sfide, i cittadini arabi di Israele costruiscono un futuro. Gli arabi israeliani sono gli arabi più istruiti del mondo, con i migliori standard di vita e opportunità nella regione. Degli arabi prestano servizio come giudici alla Corte Suprema. Alcuni dei migliori medici in Israele sono arabi, e lavorano in quasi tutti gli ospedali del Paese. 13 arabi sono membri del parlamento e godono del diritto di criticare il governo – un diritto
che essi sfruttano al massimo – protetti dalla libertà di parola.

Degli arabi vincono in popolari reality show. E potete trovare persino diplomatici arabi – uno di loro si trova di fronte a voi in questo momento.

Oggi, quando cammino per le vie di Jaffa, vedo i vecchi edifici e il vecchio porto, ma vedo anche bambini che vanno a scuola e all’università, vedo fiorenti aziende, e vedo una cultura viva. In breve, anche se, come minoranza, abbiamo ancora molta strada da fare, noi abbiamo un futuro in Israele.

Questo mi porta al prossimo punto: è arrivato il momento di finirla con la cultura dell’odio e dell’incitamento, perché l’antisemitismo, io credo, è una minaccia per i musulmani e i cristiani tanto quanto per gli ebrei.

Sono arrivato in Norvegia poco più di due anni fa, e per la prima volta ho avuto a che fare con gli ebrei come comunità di minoranza. Io sono abituato… ero abituato a vederli come maggioranza. E devo dire che ciò mi appare molto familiare. Io sono cresciuto in un ambiente simile, nella comunità arabo-cristiana di Jaffa. Facevo parte dei cristiani ortodossi, che fanno parte della comunità cristiana, che fa parte della minoranza araba, nello stato ebraico di Israele, nel Medio Oriente musulmano.

È come quelle bambole russe, ne apri una grande e dentro ce n’è una più piccola. Io sono il pezzo più piccolo. Un ebreo in Norvegia o un arabo in Israele, essere una minoranza significa che fai sempre parte di una piccola comunità in cui ognuno si preoccupa per ogni altro e lo aiuta. È una bella cosa sapere che hai sempre una comunità che si prenderà cura di te per qualunque cosa. Per tutta la mia vita, far parte di una comunità di minoranza è sempre stata una benedizione. Ma, amici, la vita di una minoranza è anche una vita di lotta costante per un trattamento equo.

A volte venite discriminati, e potete anche essere vittime di crimini motivati dall’odio. Anche in una democrazia come Israele, essere una minoranza araba non è sempre facile. Poco più di un anno fa una banda di bulli sono entrati nel cimitero arabo cristiano di Jaffa e hanno dissacrato le tombe con scritte “morte agli arabi”, e una delle tombe di quel cimitero era di mio padre.

Essere minoranza, amici miei, è una sfida ovunque, perché essere minoranza significa essere diversi. La storia del popolo ebraico ha aggiunto molte parole al vocabolario umano: parole come espulsione, conversione forzata, inquisizione, ghetto, pogrom, per non parlare della parola olocausto. Il rabbino Lord Jonathan Sacks ha spiegato accuratamente che gli ebrei hanno sofferto in tutti i tempi perché erano diversi; perché erano la più consistente minoranza non cristiana in Europa, e oggi sono la più consistente minoranza non musulmana in Medio Oriente. Ma, concretamente, non siamo tutti diversi? Diversi in ciò che ci rende umani! Ogni persona, ogni cultura, ogni religione è unica, e perciò insostituibile. E in un’Europa, o in un Medio Oriente, in cui non c’è spazio per gli ebrei, non c’è spazio per l’umanità.

Non dimentichiamo, amici: l’antisemitismo può cominciare con gli ebrei, ma non finisce mai con gli ebrei. Gli ebrei non sono stati gli unici ad essere convertiti a forza sotto l’inquisizione; sotto Hitler anche zingari e omosessuali, tra gli altri, soffrirono insieme agli ebrei; e ora sta succedendo di nuovo in Medio Oriente.

Il mondo arabo sembra avere dimenticato che i suoi giorni migliori negli ultimi 1400 anni si sono avuti quando ha mostrato tolleranza e apertura verso chi era diverso. Il genio matematico Ibn Musa el-Khawazmi era uzbeko, il grande filosofo Rumi era persiano, il glorioso conduttore Salah a-din era curdo, il fondatore del nazionalismo arabo era Michel Aflaq, un cristiano, e colui che ha portato la riscoperta islamica di Platone e Aristotele al resto del mondo è stato Maimonide, un ebreo.

Ma invece di tornare alla proficua tolleranza, si sta insegnando alla gioventù araba a odiare gli ebrei usando la retorica antisemita dell’Europa medievale mescolata con il radicalismo islamico. E ancora una volta, ciò che era cominciato come ostilità contro gli ebrei è diventato ostilità contro chiunque sia diverso. Proprio la settimana scorsa più di 60.000 curdi sono fuggiti dalla Siria verso la Turchia, temendo di essere massacrati. Lo stesso giorno 15 palestinesi di Gaza sono annegati mentre tentavano di sfuggire agli artigli di Hamas; bahai e yazidi sono a rischio. E, soprattutto, la pulizia etnica dei cristiani nel Medio Oriente è il maggior crimine contro l’umanità del XXI secolo. In appena due decenni i cristiani come me si sono ridotti dal 20% della popolazione del Medio Oriente al misero 4% di oggi. E quando vediamo che le principali vittime della violenza islamica sono i musulmani, diventa chiaro a tutti che alla fine l’odio distrugge l’odiatore.

E dunque, amici, se vogliamo riuscire a difendere il nostro diritto di essere diversi, se vogliamo avere un futuro in quella regione, io credo che dovremmo essere uniti, ebrei, musulmani e cristiani.

Combatteremo per il diritto dei cristiani di vivere ovunque la loro fede senza paura, con la stessa passione con cui combatteremo per il diritto degli ebrei di vivere senza paura. Combatteremo contro l’islamofobia, ma è necessario che i nostro compagni musulmani si uniscano alla lotta contro la cristianofobia e la giudeofobia. Perché ciò che è in gioco è l’umanità che condividiamo.

Lo so che può sembrare ingenuo, ma sono convinto che è possibile, e l’unica cosa che si frappone fra noi e un mondo più tollerante è la paura. Quando il mondo cambia, la gente comincia a preoccuparsi di ciò che riserva il futuro. Questa paura induce la gente ad arroccarsi in una passiva posizione di vittime, rifiutando la realtà e cercando qualcuno da additare come responsabile di tutto questo. Ed è vero oggi tanto quanto lo era nel 1948.

Il mondo arabo può superare questa mentalità, ma deve avere il coraggio di pensare e agire in modo diverso. Questo cambiamento richiede che gli arabi si rendano conto che non sono vittime impotenti, richiede che si aprano all’autocritica e si prendano le loro responsabilità. Finora, non c’è un solo libro di storia arabo che abbia messo in discussione l’errore storico del rifiuto della nascita dello stato ebraico. Non c’è stato un solo storico arabo di rilievo che abbia avuto il coraggio di dire che se gli arabi avessero accettato l’idea di uno stato ebraico, oggi ci sarebbero due stati, e non ci sarebbe stata alcuna guerra, e non ci sarebbe stato il problema dei profughi.

Vedo israeliani come Benny Morris, che è con noi oggi, che hanno il coraggio di sfidare le narrative dei loro dirigenti in Israele, assumendo rischi personali nella ricerca di una verità che non è sempre comoda per il loro popolo. Ma non riesco a trovare qualcosa di analogo tra gli arabi. Non vedo mettere in discussione la sensatezza della distruttiva leadership del mufti di Gerusalemme Haji Amin al-Husseini, o l’inutile guerra lanciata dagli arabi nel 1948, o ciascuna delle guerre contro Israele negli anni seguenti fino a oggi.

E non vedo critiche nella corrente palestinese attuale a proposito del terrorismo, dello scatenamento della seconda intifada, o del rifiuto di almeno due offerte israeliane negli ultimi 15 anni per porre fine al conflitto. Riflettere su se stessi non è debolezza: è un segno di forza. Fa avanzare la nostra capacità di superare la paura e affrontare la realtà. È necessario che guardiamo con onestà le nostre decisioni, e che ce ne prendiamo la responsabilità.

Solo gli arabi possono cambiare la propria realtà. Smettendo di appoggiarsi a teorie cospirative e di incolpare poteri esterni – l’America, gli ebrei, l’Occidente o chiunque altro – per ogni problema; imparando dagli errori passati e prendendo decisioni ragionevoli nel futuro.

Proprio due giorni fa il presidente statunitense Obama, sul podio dell’ONU di fronte all’Assemblea Generale, ha detto: “Il compito di rifiutare settarismo ed estremismo è un compito generazionale – un compito per il popolo stesso del Medio Oriente. Nessun potere esterno può portare a una trasformazione dei cuori e delle menti”.

Recentemente ho letto un articolo molto interessante di Lord Sacks sulla rivalità tra fratelli nella Bibbia. Ci sono quattro storie di fratelli rivali nella Genesi: Caino e Abele, Isacco e Ismaele, Giacobbe ed Esaù, e Giuseppe e i suoi fratelli. Ogni storia si è conclusa in modo diverso: nel caso di Caino e Abele, Abele è morto; nel caso di Isacco e Ismaele, si trovano insieme sulla tomba del padre; nel caso di Giacobbe ed Esaù, si incontrano, si abbracciano, e ognuno va per la propria strada. Ma il caso di Giuseppe finisce in modo diverso. Per chi conosce poco questa storia: Giuseppe era l’undicesimo dei dodici figli di Giacobbe e il primogenito di Rachele in terra di Canaan. Ad un certo punto, a causa della gelosia che nutrivano per lui, i suoi fratelli decisero di venderlo come schiavo. Ma dopo un po’ Giuseppe arrivò ad essere il secondo uomo più potente d’Egitto, accanto al faraone. Quando la carestia colpì Canaan, il padre e i fratelli di Giuseppe andarono in Egitto. E lì, invece di punirli per ciò che gli avevano fatto, Giuseppe decide di perdonare i suoi fratelli. Questo è stato il primo evento di perdono e riconciliazione registrato in letteratura. Giuseppe provvede i fratelli di tutto il loro fabbisogno ed essi prosperano, crescono in numero e diventano una grande nazione. Alla fine della storia Giuseppe dice ai suoi fratelli: “Voi volevate farmi del male, ma Dio lo ha trasformato in bene, per compiere ciò che si sta attuando ora, la salvezza di molte vite”. Con questo intende dire che dai nostri atti nel presente noi possiamo costruire il futuro e riscattare il passato.

Ebrei e palestinesi, possiamo non essere fratelli nella fede, ma siamo indubbiamente fratelli nel fato [molto migliore il gioco di parole in inglese, tra faith e fate, dalla pronuncia quasi identica, ndt]. E sono convinto che proprio come nella storia di Giuseppe, compiendo le scelte giuste, scegliendo di focalizzarci nel futuro, noi possiamo riscattare il nostro passato. I nemici di ieri possono diventare gli amici di domani. È accaduto fra Israele e Germania, Israele ed Egitto, Israele e Giordania.

È tempo di cominciare ad aprire un raggio di speranza nelle relazioni tra israeliani e palestinesi, così che possiamo porre fine al ripetersi di vecchie lamentele e concentrarci nel nostro futuro e sulle straordinarie possibilità che esso contiene per tutti noi, se solo sapremo osare.

Non ho ancora raccontato il resto della storia della mia famiglia nel 1948. Dopo un lungo viaggio verso il Libano, per lo più a piedi, i miei nonni George e Vera raggiunsero il Libano. Vi rimasero per molti mesi, durante i quali mia nonna diede alla luce il suo primo figlio, mio zio Sami. Quando la guerra fu finita, si resero conto che erano stati ingannati. Gli arabi non avevano vinto la guerra, come avevano promesso. E, contemporaneamente, gli ebrei non avevano ucciso tutti gli arabi, come era stato loro detto. Mio nonno si guardò intorno, e non vide altro che una perpetua vita da rifugiato. Guardò la sua giovane sposa Vera, non ancora diciottenne, e il figlio appena nato, e comprese che in un luogo congelato nel passato non c’era alcuna possibilità di guardare avanti, nessun futuro per la sua famiglia. Mentre i suoi fratelli e sorelle vedevano il proprio futuro in Libano e in altri Paesi arabi e occidentali, lui la pensava diversamente. Voleva tornare indietro a Jaffa, alla sua patria. Avendo in passato lavorato con degli ebrei ed essendo loro amico, non aveva subito il lavaggio del cervello dell’odio. Mio nonno George fece ciò che pochi altri avrebbero osato: tornò da coloro che la sua comunità vedeva come nemici. Fu sostenuto da uno dei suoi vecchi amici della compagnia elettrica e gli chiese aiuto per tornare indietro. E questo amico, di cui ho sentito dai racconti di mio padre e il cui nome ignoro, non solo seppe e volle aiutare mio nonno a tornare ma, con uno straordinario gesto di generosità, lo aiutò anche a riottenere il suo vecchio lavoro in quella che è diventata la compagnia elettrica israeliana, facendo di lui uno dei pochissimi arabi che vi lavoravano.

Oggi, fra i miei fratelli e cugini, abbiamo contabili, insegnanti, assicuratori, ingegneri hi-tech, diplomatici, direttori di fabbrica, professori universitari, dottori, avvocati, consulenti, dirigenti delle maggiori compagnie israeliane, architetti e persino elettricisti.

La ragione per cui la mia famiglia ha avuto successo nella vita, la ragione per cui io sono qui come diplomatico israeliano e non come rifugiato palestinese in Libano, risiede nel fatto che mio nonno ebbe il coraggio di prendere una decisione che agli altri sembrava impensabile. Invece di lasciarsi andare alla disperazione, seppe trovare speranza là dove nessuno osava cercarla: scelse di vivere fra coloro che erano considerati i suoi nemici, e di farne degli amici.

Per questo io e la mia famiglia dobbiamo a lui e a mia nonna eterna gratitudine.

La storia della famiglia Deek dovrebbe rappresentare una fonte di ispirazione per il popolo palestinese. Noi non possiamo cambiare il passato, ma possiamo costruire un futuro per la prossima generazione, se vogliamo un giorno riparare il passato. Possiamo aiutare i rifugiati palestinesi ad avere una vita normale. Possiamo essere sinceri sul nostro passato e imparare dai nostri errori. E possiamo unirci – musulmani, ebrei, cristiani – per difendere il nostro diritto alla differenza e, con ciò, salvaguardare la nostra umanità.

Infatti non possiamo cambiare il passato, ma se faremo tutto questo, cambieremo il futuro.

Vi ringrazio.

Fonte: Il blog di barbara


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INTRODUZIONE ALL’EBRAISMO

INTRODUZIONE ALL’EBRAISMO

La matrice ebraica del monoteismo 
                 
di Rav Riccardo Di Segni


 
Tra le grandi religioni monoteistiche quella ebraica è la più antica. Il suo contributo alla storia delle religioni e alla evoluzione spirituale dell’umanità è essenziale. Le altre due grandi religioni monoteistiche, Cristianesimo ed Islamismo, che raccolgono centinaia di milioni di fedeli in tutta la terra, nascono dalla matrice ebraica, a cui attribuiscono valore sacro, e dalla quale traggono continua ispirazione negli aspetti fondamentali delle proprie istituzioni religiose.

Una lunga storia tormentata e una cronaca, purtroppo ancora attuale, di polemiche e incomprensioni tende a sottolineare soprattutto le diversità che separano questi mondi religiosi; ma in una prospettiva più distaccata queste differenze sono certamente di minore importanza rispetto al complesso dei valori comuni da tutti e tre i gruppi condivisi, e che per unanime riconoscimento hanno il loro fondamento nella religione ebraica.

Il contributo del pensiero ebraico alla fondazione della società moderna non si esaurisce in prospettive strettamente religiose, ma si estende in altri ambiti, come quello civile e politico: l’esigenza di fondare una giusta società, e la tensione ad un rinnovamento “messianico” hanno precise radici nella Bibbia ebraica, e sono state trasmesse con forza e continuamente dagli ebrei sparsi in tutto il mondo.

Infine la drammatica evoluzione storica che ha fatto degli ebrei il simbolo dell’uomo perseguitato in quanto diverso, ha rappresentato per le coscienze più nobili il segno distintivo di una condizione di imbarbarimento e di negatività sociale, contro la quale lottare per la liberazione e la dignità umana.

Gli ebrei sono oggi una comunità relativamente piccola dal punto di vista numerico, circa quattordici milioni, secondo stime numeriche che hanno ampie variabili dovute a difficoltà obiettive di valutazione. Secondo le regole interne della tradizione ebraica, ebreo è colui che nasce da madre ebrea, o che si converte all’ebraismo, accettandone la disciplina religiosa.

È evidente già in questa definizione che la condizione ebraica non si esaurisce strettamente in una appartenenza religiosa; è piuttosto una appartenenza a una comunità nazionale o etnica che si riconosce in una storia comune; oggi solo una parte degli ebrei si identifica nella religione ebraica, per quanto ne accetti, in gradi molto diversi di partecipazione, le idee fondamentali o i modelli di comportamento prescritti dalla tradizione.

La società occidentale è abituata a definizioni precise, a dogmi, alla necessità di inquadramenti dottrinali; la condizione ebraica, che ha remote radici storiche, provenienti da un ambito geografico e culturale molto diverso da quello di questa società, si inserisce con difficoltà nelle moderne categorie classificatorie, mentre al suo interno rifiuta di formulare, tranne che in rarissime eccezioni, principi dogmatici e verità assolute; e questo vale in primo luogo per il problema dell’identità ebraica, almeno per come viene avvertito nella realtà quotidiana degli ebrei.

Gli ebrei di oggi sono gli eredi e i continuatori, fisici e spirituali, di una comunità nazionale e di una esperienza religiosa che ha almeno tre millenni di storia.

Parlando di millenni, l’approssimazione è d’obbligo; se da un lato il testo fondamentale dell’ebraismo, la Bibbia, cerca di dare notizie in un certo senso precise sui tempi e sui modi di sviluppo di questa esperienza, è da tener presente che esiste una tradizione critica – nata e sviluppata in particolare nel mondo protestante tedesco – che mette sistematicamente in discussione la validità delle notizie che l’ebraismo dà delle sue origini, e quindi ne sposta le date e le circostanze, mettendo in dubbio anche concetti finora ritenuti per scontati.

Secondo la narrazione biblica l’ebraismo nacque in un’epoca intorno al XIV-XV secolo prima dell’era volgare con Abramo, un nomade pastore originario di Ur dei Caldei, città mesopotamica di controversa identificazione. Abramo arrivò nella terra allora detta di Canaan, dal nome del popolo che l’abitava, e che dieci secoli dopo i Greci avrebbero iniziato a chiamare Palestina, dai Filistei, il popolo che vi si era insediato dal XII secolo nelle sue regioni costiere. Per gli ebrei il nome di questa terra rimarrà a lungo quello di Canaan, per poi divenire, fino ad oggi, la terra d’Israele.

Delle origini di Abramo la Bibbia quasi tace, e da qualche traccia del testo non si può escludere una sua condizione elitaria; egli assume la qualifica di ‘ivrì , da cui in lingua italiana ebreo, che trasmetterà ai suoi discendenti. In base ad alcuni documenti archeologici oggi si sa che un nome simile, hapiru, designasse nella società dell’epoca una classe sociale instabile, costituita da fuoriusciti privi di diritti; ma secondo la Bibbia il termine può indicare il discendente di ‘Ever, o colui “che viene dall’altra parte”: parte del fiume, in senso geografico, o in senso metaforico l’altra parte della società, essendo Abramo colui che ha operato una scelta che lo distingue da tutti gli altri.

La scelta di Abramo è quella di porsi al servizio fiducioso e rischioso di un unico Dio, abbandonando il culto degli idoli e tutto il suo mondo originario; in compenso Dio gli promette, con un patto vincolante, una discendenza numerosa come le stelle del cielo, il possesso della terra dove si è recato, abbandonando tutti, e una benedizione continua che da lui e dalla sua discendenza si irradierà a tutte le famiglie della terra.

La Bibbia poi racconta le vicende della famiglia di Abramo, del figlio Isacco, e del nipote Giacobbe; quindi dei dodici figli di questi, che saranno i capostipiti delle dodici tribù di Israele. Giacobbe con i suoi figli emigrò in Egitto, dove un altro figlio, Giuseppe, era divenuto ministro del Faraone, e così si chiuse l’epoca detta patriarcale. Giacobbe, lottando contro una figura angelica in un episodio pieno di simboli profondi e oscuri, si conquistò un nuovo nome, Israel, “colui che ha lottato con Dio”, ed è riuscito a vincere. Da quel momento la comunità sarà definita con il nome, forse più nobile, di “figli di Israele”, o semplicemente di Israele.

Sempre seguendo il racconto biblico, dopo un breve periodo di benessere egiziano, gli ebrei, che nel frattempo erano cresciuti numericamente fino a diventare un popolo, vennero sottoposti a una dura schiavitù dai Faraoni per un periodo di uno-due secoli, e quindi liberati per intervento di un grande capo, Mosè.

Questi condusse il popolo nel lungo cammino tra l’Egitto e la terra promessa, fermandosi alle falde del monte Sinai per ricevere la legge divina. Dopo quarant’anni di permanenza nel deserto Mosè morì, e il popolo entrò nella terra promessa, che riuscì a conquistare parzialmente, sotto la guida di Giosuè.

Con Giosuè inizia l’epoca detta dei Giudici, capi politici, militari e giudiziari che secondo le necessità contingenti unirono le tribù, o una parte di esse, per contrastare una minaccia esterna. All’unità nazionale si arrivò piuttosto tardivamente con la fondazione della monarchia unificata; il primo re fu Saul, a cui succedette David, di un’altra famiglia, che dette origine a una linea dinastica permanente. Il regno di David è collocato dagli storici all’inizio del primo millennio.

La presentazione biblica della più antica storia ebraica è ampiamente e variamente contestata dai critici, che arrivano da un lato a negare qualsiasi realtà storica alle scelte religiose che la tradizione attribuisce ad Abramo e all’epoca patriarcale, dall’altra proseguono negando tutta la storia della schiavitù egiziana, dell’uscita dall’Egitto e della conquista della terra di Canaan; secondo opinioni che attualmente circolano con insistenza tra gli studiosi (e che ovviamente sia i tradizionalisti ma anche i critici meno estremistici non accettano) il popolo ebraico si sarebbe formato originariamente nella terra di Canaan, fondendo genti di varie origini, e inventandosi miticamente l’intera storia patriarcale, della schiavitù e della conquista. L’unica storia vera e verificabile, in questo tipo di approccio, è quella che ha riscontri nei documenti archeologici e storici dei popoli vicini, e ciò è possibile solo con gli inizi del regno.

Dopo la morte del figlio di David, Salomome, il regno unito si divise in due; la parte settentrionale prese il nome di regno d’Israele e la meridionale di regno di Giuda (dal nome della tribù principale che lo costituiva; di qui Giudea, per designare la regione, e anche Giudei per indicare fino ad oggi gli ebrei come i discendenti sopravvissuti di questo regno).

Il regno di Israele finì nel 720, per opera degli Assiri, e i suoi abitanti deportati si dispersero senza lasciare probabilmente alcuna traccia; da allora solo il regno di Giuda rappresentò la continuità dell’ebraismo. Anche questo regno viene distrutto, nel 586, dai Babilonesi; i suoi abitanti portati in esilio in Babilonia, tornarono in parte a partire dal 538, con l’editto di Ciro. A Gerusalemme venne edificato un nuovo Tempio, e la Giudea restò sotto il dominio persiano.

Tutta l’epoca dei regni, e l’inizio dell’epoca del secondo Tempio, sono contrassegnate da una intensa attività culturale e una produzione spirituale notevole, che culminò nell’azione dei profeti, che espressero al massimo le potenzialità religiose dell’ebraismo biblico. Secondo l’idea tradizionale i libri biblici sono stati scritti nell’epoca dei fatti narrati; secondo la critica sono molto più tardi, ma in ogni caso la scrittura dei libri del Pentateuco e delle opere profetiche avrebbe avuto il suo compimento all’inizio del secondo Tempio.

Nel 332 Alessandro conquistò la regione, che quindi passò sotto il dominio dei Tolomei e poi dei Seleucidi; nel 174 con la rivolta dei Maccabei la Giudea iniziò ad avere una relativa indipendenza, che avrebbe progressivamente perduto con l’arrivo dei Romani. Nel 70 dell’era volgare il Tempio di Gerusalemme venne distrutto da Tito; nel 135 l’ultima rivolta giudaica contro i Romani fu definitivamente domata nella repressione più brutale.

Da allora gli ebrei non ebbero più unità statale, e si dispersero progressivamente per il mondo. In verità la Diaspora, la dispersione degli ebrei, era già una realtà nel primo secolo prima dell’era volgare, ma con la distruzione del Tempio e la perdita dell’indipendenza politica ebraica divenne una condizione negativa e inevitabile, senza tutela giuridica e quindi sempre più contrassegnata da discriminazioni, sofferenze e persecuzioni.

Con il trionfo politico del cristianesimo, agli inizi del quarto secolo, i rapporti di questo con l’ebraismo, tesi fin dalle origini, si tradussero nella formulazione, sempre più sistematica, di una ideologia oppositoria e quindi di sistemi giuridici di vessazione e avvilimento. Secondo il Cristianesimo il ruolo dell’ebraismo si era esaurito con l’avvento di Gesù, il Messia annunciato dalle scritture bibliche; da allora l’ebraismo non poteva essere altro che una parvenza di sé stesso, al quale tutt’al più poteva essere riconosciuto il ruolo di testimone inconsapevole della verità del Cristianesimo, e come tale, almeno parzialmente, tollerato in attesa della sua conversione.

La civiltà cristiana espresse di conseguenza nei confronti dell’ebraismo una ideologia molto poco tollerante, e nei fatti ciò produsse nel corso dei secoli discriminazioni, espulsioni e massacri. Diverso per molti aspetti fu il rapporto con la religione Islamica, che fu capace di elaborare nei confronti dell’ebraismo un sistema di relativa tolleranza, nel quale pure vi furono espulsioni e massacri, ma in misura relativamente modesta se confrontati con quelli della storia cristiana. In ogni caso la tolleranza musulmana arrivò a tollerare l’ebreo in quanto diverso, di rispettabili origini, ma pur sempre come sottomesso, mai come persona di pari dignità.

La lunga storia del rapporto difficile del mondo con gli ebrei culminò in questo secolo (ventesimo n.d.r) con la persecuzione nazista, nel corso della quale sei milioni di ebrei, pari a un terzo del popolo ebraico allora vivente, venne massacrato. A tre anni dalla fine della guerra mondiale, nel 1948 un altro evento decisivo ribaltò la storia ebraica, con la fondazione dello Stato d’Israele, creato per volontà del movimento sionista, che proponeva in forma politica l’antico ideale della raccolta delle Diaspore. Il resto è storia recente di vivissima attualità quotidiana.

Se per la antica teorizzazione cristiana l’ebraismo aveva praticamente cessato di vivere spiritualmente con la nascita di Gesù, la realtà dei fatti è radicalmente diversa. I primi secoli dell’era volgare sono contrassegnati da una produzione culturale, che ha come protagonisti i rabbini, cioè i maestri della tradizione giuridica e spirituale di Israele, che elaborarono e sviluppano un enorme patrimonio morale e giuridico. L’ebraismo stesso cambiò aspetto, per effetto degli avvenimenti di cui era stato vittima.

Nell’anno 70 la distruzione, da parte dei Romani, del Santuario di Gerusalemme privò l’ebraismo del centro fisico della sua vita cultuale, nella quale avevano una importanza essenziale i riti sacrificali e l’osservanza di pratiche di purità, e dei quali erano protagonisti e custodi i sacerdoti: tali si è, nell’ebraismo, per nascita, discendendo dalla stirpe sacerdotale di Aron, fratello di Mosè.

Nel momento in cui l’ebraismo politico si avviava alla tragedia della sua distruzione si avvertì il rischio che questa rovina potesse trascinare con sè anche il mondo spirituale e religioso dell’ebraismo. Rabban Jochannan ben Zakkai, il capo spirituale della sua generazione, decise di assumersi la responsabilità di venire a patti con i Romani e di salvare il salvabile. Fuggì da Gerusalemme assediata con uno stratagemma: fece annunciare la sua morte e si fece portare fuori dalla città in una bara. Riuscì quindi a parlare con Tito, e gli strappò la concessione di una zona franca nella quale poter insediare il Sinedrio, il massimo tribunale rabbinico, e continuare la trasmissione della cultura ebraica attraverso lo studio e l’insegnamento.

Fu così possibile riorganizzare un mondo religioso che doveva trovare la sua nuova identità dopo che alcune sue strutture essenziali, legate al Santuario, erano venute a mancare. Fu questo l’epilogo di una lunga storia di contrapposizioni tra i due poli culturali e religiosi dell’ebraismo, quello sacerdotale e quello rabbinico. Il rabbino, a differenza del sacerdote, non è tale per nascita, ma è un maestro della dottrina religiosa, che è arrivato a questa dignità con lo studio e con la pratica di una condotta esemplare. Con la distruzione del Tempio, finito il ruolo del sacerdozio (in senso pratico, anche se tuttora i sacerdoti nell’ebraismo esistono, senza le funzioni di un tempo), furono i rabbini ad assumere la guida culturale e spirituale dell’ebraismo.

Da questa opera grandiosa, che si compì nel quinto secolo, nacque la letteratura talmudica, che fu la base delle elaborazioni successive. Nei secoli seguenti ogni generazione fu segnata dalla presenza di grandi personalità dello spirito che svilupparono in diversi aspetti le potenzialità religiose dell’ebraismo: dall’aspetto rituale e giuridico a quello filosofico, fino a quello del fervore religioso e all’esperienza mistica. Quest’ultima, dopo essere stata per secoli patrimonio di pochi, nel XVIII secolo in Europa Orientale riuscì a coinvolgere, con il movimento chassidico, grandi masse in espressioni di intensa spiritualità, che ancora oggi ispirano e dirigono la vita religiosa di ampie fasce di comunità ebraiche.

Anche in una evoluzione storica così lunga e articolata è possibile mettere in evidenza alcuni punti essenziali e comuni che rappresentano le basi fondamentali dell’ebraismo. La più importante è l’idea monoteistica. Questa idea apparve nell’antichità come una vera e propria rivoluzione, forse preannunciata da alcune intuizioni presso gli egiziani, ma che solo nella cultura ebraica trovò uno sviluppo fecondo e costante, una fedeltà assoluta, insieme alla determinazione storica a mantenerla e a mantenerla a ogni costo.

Il Dio in cui crede Israele è l’unico ritenuto possibile, creatore di tutta la realtà esistente, che non ammette alcuna divisione di ruoli; non esiste al di fuori di Lui alcun altro dio; gli idoli in cui l’uomo pone fiducia non hanno senso, non hanno fondamento. Nulla può esistere senza di Lui, mentre Egli preesiste alla creazione e a ogni realtà.

Fin dalle origini l’ebraismo immagina questo Dio come unico non solo nel suo ruolo, ma anche nella sua essenza; e per quanto nella Bibbia si moltiplichino le espressioni antropomorfiche, che rappresentano simbolicamente gli interventi divini sulla terra, è chiara la coscienza che la realtà divina non ha nulla a che fare con quella materiale e umana; è infinita, assolutamente spirituale e incorporea, non rappresentabile: ogni immagine che se ne pretenda di fare è una terribile offesa, un tentativo di rapportare alle dimensioni umane un’essenza che per definizione non le appartiene.

Ma qui l’idea ebraica sviluppa il suo paradosso essenziale: se da un alto la realtà divina è assolutamente superiore e diversa da quella umana, al punto che non sarà mai possibile arrivare a comprenderla nel suo aspetto più profondo; dall’altra l’ebraismo pretende che questa realtà sia, per quanto imperscrutabile, estremamente vicina all’uomo. In molti sensi differenti, iniziando dall’essenza stessa dell’uomo, che è creato a immagine e somiglianza divina, concetto che si esprime nelle sue qualità intellettuali, nella sua dignità, nella possibilità di scelte morali, nella parola, nelle capacità di dominare la realtà e di trasformarla; quindi nel governo divino della storia, per cui si ammette, anzi si sostiene con forza, l’idea di un intervento continuo da parte di Dio nelle vicende umane.

Ciò si esprime in vari modi: nell’insegnamento agli uomini di una strada corretta da seguire, e nell’illuminazione di personalità eccezionali che comunicano agli uomini questi insegnamenti in momenti speciali; poi nella garanzia di un ordine in cui la giustizia e la rettitudine siano conservati. L’ebraismo crede nel concetto della ricompensa e della punizione, e vede in Dio il garante di questo ordine, che privilegia la giustizia.

Forti di questa fede, per secoli gli autori ebrei, dal libro dei salmi a Giobbe, alla letteratura rabbinica, fino ai pensatori della nostra epoca, hanno cercato di trovare una tormentata risposta al problema della sofferenza del giusto in questo mondo. La questione della ricompensa è stata risolta in vari modi: pensando ad esempio a una realtà successiva e diversa da quella di questo mondo, riservata come premio ai giusti; oppure elaborando una concezione divina come criterio assoluto, stimolo e modello da imitare nella promozione della dignità umana; o evitando di affrontare direttamente il problema, avvertendo la realtà quotidiana, anche nei suoi aspetti negativi, come segno di una volontà che per noi è incomprensibile, ma che è pur sempre giusta. Solo raramente, e forse di più nella nostra epoca, dopo Auschwitz, è stata messa in dubbio la tutela divina sulla storia.

Ma il Dio adorato da Israele non è soltanto, come si è soliti pensare, il terribile garante della giustizia e il tremendo e collerico punitore degli empi. Questa è un’immagine distorta e parziale, che l’ebraismo ha ricevuto dalle polemiche antiebraiche di alcuni circoli cristiani, che hanno voluto delineare una presunta opposizione tra il Dio dell’Antico Testamento, vendicativo e collerico, e quello del Nuovo, fatto di solo amore. In realtà nell’una e nell’altra tradizione Dio è giustizia e amore.

Basti leggere per l’Antico Testamento la splendida parabola dell’ultimo capitolo di Giona, in cui Dio insegna che il mondo non si può reggere sulla sola giustizia, e che Dio è un padre misericordioso, che ha pietà per tutte le sue creature. Amore e giustizia sono i prototipi dei due attributi divini con i quali la tradizione rabbinica immagina la presenza, che per la mente umana è apparentemente contraddittoria, della realtà divina nella storia, dalla creazione (che fu atto d’amore, perché sulla sola giustizia il mondo non avrebbe potuto resistere un solo istante), alla vicenda quotidiana.

Secondo la concezione ebraica la volontà divina sulla terra si realizza e si esprime secondo un programma preciso, che è stato consegnato all’uomo. Questo programma ha un nome, è la Torà, l’insegnamento divino, e si identifica inizialmente con la prima parte della Bibbia, il Pentateuco.

In questo libro sono narrate e interpretate in chiave religiosa le vicende essenziali che segnano la vocazione del popolo ebraico al servizio divino. Una piccola tribù di pastori seminomadi, diventata popolo e soggetta in schiavitù in Egitto, si immagina come legata ad una missione speciale nei confronti dell’umanità da un vincolo che ha stretto con il Dio di cui i suoi patriarchi hanno cominciato a scoprire l’esistenza.

Questo vincolo è il patto, o meglio una serie di patti che Israele strinse con Dio, stabilendo un impegno per tutte le generazioni successive. Da un lato Israele riconosce Dio come il suo Signore, e si impegna a osservarne la volontà, che è quella espressa nei comandi della Torà; dall’altra Dio sceglie Israele come suo popolo, lo considera un reame di sacerdoti, e gli promette, in una terribile sfida storica, il bene e il male che possono nascere da una scelta e da un impegno superiore.

L’elezione di Israele non è un dono incondizionato, ma una sfida e una provocazione continua, che comportano un prezzo altissimo. Un insegnamento rabbinico sostiene che Dio ha fatto tre buoni doni ad Israele, ma tutti quanti a prezzo di grandi sofferenze: la Torà, la terra d’Israele, il mondo futuro. Tra le poche consolazioni, è la coscienza di Israele, che anche nelle peggiori circostanze sa che l’impegno divino non è rinunciabile né soggetto a ripensamenti, e che Dio quindi non potrà mai lasciare il suo popolo e svincolarlo dal suo patto. Israele si considera come “un reame di sacerdoti” rispetto all’umanità, nel senso che si è imposto, come tutti coloro che sono sottoposti a servizi speciali, una disciplina aggiuntiva che gli altri non devono o vogliono avere.


Da questi presupposti nasce una dottrina articolata sui rapporti con gli altri popoli e le altre fedi, che ha già notevoli espressioni nei libri profetici della Bibbia e che poi la tradizione rabbinica sviluppa. Vi sono elementi particolaristici, insieme a visioni di respiro universale. L’umanità tutta è chiamata da Dio, e l’elezione di Israele non esclude altre elezioni. Solo che la disciplina imposta ad Israele, che si esprime nei 613 doveri o precetti che sono prescritti dalla Torà, non deve essere necessariamente condivisa da altri.

Per tutti i popoli, che vengono chiamati tecnicamente i “noachidi”, cioè i discendenti da Noè, sopravvissuto con la sua famiglia al diluvio, c’e ugualmente una strada aperta per un rapporto sacro con Dio e per conseguire la pienezza dei beni e la benedizione che non è esclusiva per Israele, ma di cui Israele si considera solo un annunciatore e un promotore. Ai popoli della terra per arrivare al livello di “giusti” sarà sufficiente il rispetto di una normativa essenziale, che nella tradizione rabbinica è stata riassunta in sette principi, che riguardano il rapporto con Dio (rifiuto dell’idolatria e della bestemmia), con gli altri uomini (divieto di omicidio e di furto, costituzione di tribunali) e il rispetto dell’ordine “naturale” (morale sessuale essenziale, rispetto degli animali).

L’ebraismo ha sempre avvertito, fin dalle origini, la tensione tra le realtà oggettiva del momento e il desiderio di vedere realizzate tutte le sue speranze e i suoi ideali. Molti ideali hanno un senso concreto: per quanto riguarda Israele, la fine della sua dispersione e della sofferenza in mezzo alle nazioni del mondo, e il ritorno dei dispersi nella terra d’Israele; l’esigenza di una società fondata e dominata dalla giustizia, sia all’interno del popolo d’Israele, sia più in generale nei rapporti tra le nazioni del mondo; la fine delle violenze e degli strumenti di violenze; di qui progressivamente la prospettiva ideale si allarga su immagini escatologiche di redenzione universale e totale.

Tutte queste speranze hanno un nome comune, messianesimo, da “messia” che in ebraico indica l’attributo del re, che saprà fondare la società giusta. È importante rilevare che nella Bibbia ebraica, così come nella tradizione successiva, non esiste una formulazione unitaria di queste idee, che convivono anche con molte contraddizioni e opposizioni. Ma l’elemento comune in tanta diversità è la coscienza dell’imperfezione, la costanza della tensione, che segna la vita dell’ebreo con un anelito continuo al rinnovamento.

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Chi falsifica la Sacra Famiglia?

Chi falsifica la Sacra Famiglia?

Cartolina di Natale 

di Ugo Volli 
 


Cari amici,
in questi giorni di festa circolano tante immagini auguranti, che non ci facciamo più veramente caso: alberi, stelle, bambinelli, grotte, presepi… Tutte hanno il significato, anche per chi come me appartiene a tutt’altra parrocchia, di augurare del bene, e come tali sono gradite. Ci sono però alcune eccezioni, alcune mandorle amare e frutta marcia in questi panettoni, che ne deformano il senso verso la propaganda politica, cercando di strumentalizzare e falsificare la religione. Sono immagini in cui si mostra la sacra famiglia nel ruolo di “palestinesi”, ingiustamente bloccati dal “Muro” o dai check point israeliani.

Sono immagini velenose e blasfeme, soprattutto dal punto di vista cristiano. Vediamo brevemente perché. In primo luogo, Giuseppe e Maria erano ebrei, non palestinesi, al di là di tutte le falsificazioni dei politici arabi che descrivono Gesù addirittura come uno ” shahid “, che nel linguaggio attuale del conflitto mediorientale significa attentatore suicida.
 
Lo dicono chiaramente i Vangeli.

Per esempio in Luca, cap.2,1- 6 si legge: ” In quei giorni un decreto di Cesare Augusto ordinò che si facesse il censimento di tutta la terra. Questo primo censimento fu fatto quando era governatore della Siria Quirinio. Andavano tutti a farsi registrare, ciascuno nella sua città. Anche Giuseppe, che era della casa e della famiglia di Davide, dalla città di Nazareth e dalla Galilea salì in Giudea alla città di Davide, chiamata Betlemme, per farsi registrare insieme con Maria sua sposa, che era incinta. Ora, mentre si trovavano in quel luogo, si compirono per lei i giorni del parto.”

E Matteo, cap. 2,1-6: “Gesù nacque a Betlemme di Giudea, al tempo del re Erode. Alcuni Magi giunsero da oriente a Gerusalemme e domandavano: «Dov’è il re dei Giudei che è nato? Abbiamo visto sorgere la sua stella, e siamo venuti per adorarlo». All’udire queste parole, il re Erode restò turbato e con lui tutta Gerusalemme. Riuniti tutti i sommi sacerdoti e gli scribi del popolo, s’informava da loro sul luogo in cui doveva nascere il Messia. Gli risposero: «A Betlemme di Giudea, perché così è scritto per mezzo del profeta: E tu, Betlemme, terra di Giudea, non sei davvero il più piccolo capoluogo di Giuda: da te uscirà infatti un capo che pascerà il mio popolo, Israele».

“Re dei Giudei”, “famiglia di Davide” “capo del mio popolo Israele”. Il testo non potrebbe essere più chiaro. La famiglia di Gesù era ebrea, Gesù rimase un ebreo rispettoso della Legge fino alla morte, Betlemme era Giudea. A quel tempo non esisteva il nome di Palestina (che fu imposto alla Giudea nel 135 d.C. per ordine di Adriano, dopo l’ennesima fortissima rivolta ebraica quando anche Gerusalemme fu rinominata Aelia Capitolina; i filistei, popolazione indoeuropea da cui il nome deriva, non erano più in circolazione da circa 800 anni e gli arabi erano ancora beduini sparsi e politeisti che vivevano nella parte centrale e soprattutto meridionale della penisola arabica, a 2000 chilometri di distanza.

Chi identifica dunque la famiglia di Giuseppe con i palestinesi, fa insulto insieme alla storia e ai Vangeli.

Già, potrebbe obiettare qualcuno, ma se vivessero oggi? Chi e che cosa sarebbero oggi? Coi se si può dire tutto quel che si vuole. Ma se si vuole minimamente rispettare la narrativa evangelica, bisogna ammettere che l’essere ebreo di Gesù non è un dato marginale, ma centrale: l’idea del Messia è un’idea ebraica, e legata alla casa di Davide; il discorso evangelico è pieno di riferimenti ai profeti ebraici, la predicazione di Gesù si rivolge esplicitamente agli ebrei e non ad altri (anche se dopo la sua morte le cose cambieranno), il suo atteggiamento nei confronti della legge è di “compimento, non di annullamento”, le sue ultime parole sono la citazione di un Salmo di Davide. Il cristianesimo nasce nei suoi contenuti fondamentali e nelle sue storie dal tronco dell’ebraismo, e lo riconosce sempre, anche nei momenti peggiori di “antigiudaismo” (per esempio in Agostino di Ippona o in Lutero).

E allora, che accadrebbe oggi di una coppia di ebrei che dovessero trasferirsi da Nazareth a Betlemme?

Attraverserebbero la valle di Jeezrael, cercherebbero di percorrere la strada delle colline, ma sarebbero respinti; poi magari farebbero il giro passando per l’autostrada costiera e poi su per Gerusalemme, ma sarebbero respinti di nuovo: quello è territorio dell’Anp (zona A) e gli ebrei non possono entrarci. Non possono per due ragioni: la prima è che l’Autorità Palestinese non vuole ebrei in Palestina né ora né mai: neanche un ebreo può abitare nelle zone “liberate”. La seconda ragione, più grave ancora è che ebrei soli e disarmati in territorio palestinese hanno la certezza di essere uccisi appena possibile, come accadde ai due che entrarono qualche tempo fa a Ramallah e furono barbaramente. I cittadini israeliani hanno perciò la proibizione di entrare nelle città palestinesi e i posti di blocco servono anche a questo.

Insomma, Giuseppe e Maria non potrebbero arrivare a Betlemme non perché impediti dal “Muro” israeliano, ma dagli ordini dell’Autorità Palestinese e dalle minacce di morte che vengono da tutte le fazioni arabe locali. Per questa ragione le immagini di cui sto parlando sono un brutale rovesciamento della verità. Che cose del genere vengano dette da alcune chiese cristiane (soprattutto anglicani e luterani, ma anche alcuni vescovi cattolici locali), testimonia di quanto la passione politica e – diciamolo – l’antisemitismo militante, l’odio per Israele e gli ebrei, ha ormai sovrastato in costoro la fede, anche se poi di fatto i cristiani sono perseguitati dai musulmani palestinesi maggioritari, come lo sono dappertutto nel mondo islamico. E’ un peccato, non solo sul piano politico, ma anche su quello propriamente religioso, perché quest’odio annulla il vero spirito di Natale e impedisce a chi ne è portatore di scorgere quella che è una delle radici profonde del Cristianesimo, cioè il legame con l’insegnamento dell’ebraismo.

A tutti i miei amici cristiani auguro sinceramente Buon Natale e Buon Anno.




 

Ugo Volli

 

Testata: Informazione Corretta -25.12.2012

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