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SATANA ESISTE ! In un’analisi di don Marcello Stanzione…

SATANA ESISTE ! In un’analisi di don Marcello Stanzione…

Il diavolo, il satanismo e altri fenomeni sociali connessi, sono agli inizi del terzo millennio di grande attualità. Il nostro mondo occidentale post-moderno pullula di maghi, streghe e stregoni di città, sciamani, venditori di fatture, di amuleti e talismani nonché di sette sataniche vere e proprie. Il demonio scacciato dalla porta è rientrato dalla finestra! Cioè scacciato dalla fede della Chiesa, è rientrato con la superstizione dell’occultismo. Ci chiediamo: esiste il demonio? Cioè, questo termine indica veramente una qualche realtà personale, dotata di intelligenza e volontà, o è semplicemente un simbolo, un modo di esprimersi figurato, una metafora per indicare la zona d’ombra collettiva e personale oppure la somma del male morale del mondo. Molti tra gli intellettuali non credono nel demonio inteso nel primo significato. Si deve però riflettere sul fatto che grandi scrittori del calibro di Goethe o Dostoevskij hanno preso molto sul serio l’esistenza di Satana. E’ interessante notare che proprio Baudelaire abbia detto che “La più grande astuzia del demonio è far credere che egli non esista”. Se esaminiamo la nostra storia personale e quella del mondo nel quale viviamo ci rendiamo conto che c’è molto male e cattiveria. Notiamo che persone che si amano possono arrivare al reciproco odio. Chi fa il male, presto ne perde il controllo ed esso si propaga autonomamente; ci sono molti assassini che, sinceramente, dichiarano nei tribunali che non avevano alcuna intenzione di uccidere. Le due guerre mondiali sono scoppiate a causa di piccoli focolai locali che poi si sono estesi a tutte le nazioni del globo. Quasi tutti i profeti della Bibbia sono stati uccisi e lo stesso Gesù è stato crocifisso. Nel ventesimo secolo Hitler e Stalin hanno crudelmente sterminato decine di milioni di persone innocenti.

Ci rendiamo conto, quindi, che ci sono dentro e fuori di noi delle forze cattive e altre buone che lottano continuamente. Per la fede cristiana le ispirazioni cattive non sono generate da forze astratte ma dagli angeli maligni o diavoli che si accaniscono contro l’umanità che essi invidiano. La Sacra Scrittura afferma che Dio non può essere la causa del male e della sofferenza. Nel libro della Genesi è scritto che alla fine della creazione: “Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona”. Benché non abbiamo molte informazioni sull’origine del male nell’universo, sappiamo dalla divina Rivelazione che un gruppo di angeli peccò contro Dio. Nella seconda lettera di Pietro, l’autore ispirato scrive: “Dio infatti non risparmiò gli angeli che avevano peccato, ma li precipitò negli abissi tenebrosi dell’inferno, serbandoli per il giudizio” (2 Pt. 2,4). Il passo parallelo della lettera di Giuda afferma la punizione divina verso gli angeli peccatori: “e che gli angeli che non conservarono la loro dignità ma lasciarono la propria dimora, egli li tiene in catene eterne, nelle tenebre, per il giudizio del gran giorno”.

II peccato degli angeli maligni fu solennemente definito come dogma di fede dal Concilio Lateranense del 1215: “Il diavolo e gli altri demoni sono stati creati da Dio buoni per natura, ma diventarono cattivi da se stessi”. Isaia 14, 121-14 parla dell’origine degli angeli maligni dalla pretesa di Lucifero di farsi uguale all’Altissimo. Ezechiele 28, 12-17 descrive Lucifero, l’angelo della luce, prima della sua rivolta contro Dio: “Tu eri un modello di perfezione, pieno di sapienza, perfetto in bellezza; […] Perfetto tu eri nella tua condotta, da quando sei stato creato, finché fu trovata in te l’iniquità […] ti sei riempito di violenza e peccati: io ti ho scacciato dal monte di Dio e ti ho fatto perire, cherubino protettore, in mezzo alla pietra di fuoco. Il tuo cuore si era inorgoglito per la tua bellezza, la tua saggezza si era corrotta a causa del tuo splendore: ti ho gettato a terra” (Ez. 29, 12-17). Gli esegeti ci fanno notare che la Bibbia si riferisce agli spiriti celesti come a delle stelle del firmamento, quindi spiega perché prima della sua ribellione Lucifero venne chiamato “La stella del mattino”. A questa descrizione S. Giovanni aggiunse: “E la sua coda trascinava la terza parte delle stelle del cielo e le gettò sulla terra” (Ap. 12, 4).

Come “astro fulgente” fra tutti gli angeli stava dunque Lucifero e ciò divenne per lui una tentazione, egli non volle servire e dipendere da Dio e non volle accettare la grazia della felicità eterna che gli era promessa come un dono di Dio. Volle così diventare simile a Dio, benché non a lui uguale, perché sapeva bene che ciò è impossibile ad una creatura. Secondo la maggior parte dei teologi il peccato degli angeli fu dunque un peccato di superbia. Il teologo Suarez espresse l’ipotesi che Lucifero fosse stato preso da invidia per la natura umana che in Cristo Gesù, nella pienezza dei tempi, si sarebbe unita alla natura divina e quindi avesse mirato ad una unione della sua natura angelica a quella divina. In tal modo Lucifero che poi divenne Satana sarebbe stato fin dall’inizio l’avversario di Cristo. Se Gesù è il principio e la fine della storia (l’alfa e l’omega) probabilmente il suo avversario, Satana, si sarà manifestato come tale dall’inizio e tale rimarrà fino alla fine dei tempi, quando sarà definitivamente condannato. S. Gregorio Nazianzeno, riguardo alla caduta degli angeli, così scrive: “Insieme a Lucifero si staccarono da Dio un certo numero di angeli, essi non furono quindi costretti, ma liberamente si ribellarono a Dio. Questi angeli perfidi e orgogliosi provenivano da tutti i cori angelici e Lucifero esercitò su di essi il comando. Dopo il peccato di disobbedienza a Dio sono mutati gli appellativi degli angeli prima buoni. Al termine angeli adesso dobbiamo aggiungere l’aggettivo “iniqui”.

Il nome “Lucifero” era adatto a colui che forse era il più elevato degli spiriti celesti prima del peccato. Dopo la caduta si pensò di definirlo con il nome di Satana, una parola ebraica che significa “avversario” e anche “calunniatore” o “accusatore”. La versione greca della Bibbia detta dei Settanta traduce “Satana” con il vocabolo “Diabolos”, che significa “colui che divide (dal verbo greco diaballo) e corrompe”. Il Nuovo Testamento presenta il diavolo come un essere attivo, abile, ingegnoso (Mt. 13, 19; Lc. 8,12; Ex. 2, 14), seduttore e astuto (2 Cor. 11, 3), violento e collerico (Ap. 2, 10; 12). Gesù lo identifica con Beelzebul, principe dei demoni (Mc. 3, 2224); e l’Apocalisse (20, 2) lo identifica con questi termini: “Il dragone, l’antico serpente, cioè il diavolo, satana”. Oggi il pensiero esoterico, nuovamente rinvigorito dalla diffusione in larghissimi strati della popolazioni di scritti di astrologia occulta e della Kabbalah diffusi dalla New Age, parla di geni, ondine, fate, elfi e di altri demoni benigni. In realtà in quella scelta primordiale pro o contro Dio non vi fu posto per angeli neutrali. Il teologo Lessio, discepolo di Suarez, affermò decisamente: “L’opinione che vi siano dei demoni benigni (come pure geni elementari nel fuoco, nell’aria, nella terra) è contro la Sacra Scrittura e l’insegnamento della Chiesa, che riconosce solo demoni cattivi”.

Gli angeli decaduti o diavoli, essendo spiriti, hanno anche dopo il castigo divino quella savratemporalità ed extraspazialità che li rende superiori agli esseri umani. I diavoli, insegna S. Tommaso, hanno la naturale facoltà conoscitiva particolarmente brillante e quindi sono di gran lunga più intelligenti degli uomini. l demoni sono molto più abili di tutti i nostri fisiologi e psicologi, sono più esperti e scaltri di tutti i nostri uomini politici. Dopo il peccato solo la volontà angelica è mutata. Con quella libera decisione presa al momento della prova con Dio o contro Dio, la volontà degli angeli rimane o confermata nella grazia o indurita nel peccato. Per Lucifero-Satana e il suo seguito, la punizione divina fu l’eterna dannazione. Non esiste dunque alcuna possibilità di salvezza per gli angeli ribelli. A questo riguardo c’è un falso pietismo verso i diavoli che crea molta confusione e alcuni teologi parlano di una finale riabilitazione la salvezza dì tutti i diavoli come pure di tutti gli uomini malvagi grazie alla infinita bontà e misericordia di Dio. Lo scrittore Giovanni Papini nel suo libro “Il diavolo” pubblicato negli anni 50 fece scalpore con una tesi a dir poco ardita. Papini affermava che Satana non può salvarsi da sé e Dio non può fare il primo passo; quindi agli uomini di buona volontà è offerta la possibilità di esercitare l’amore al nemico e con questo amore indurre Satana a manifestare il suo pentimento. In tal modo Dio lo perdonerà e ci libererà dal “male” come chiediamo nell’orazione domenicale.

La verità è che la situazione di ribellione a Dio da parte degli spiriti malvagi è una scelta irrevocabile. I diavoli hanno rifiutato la signoria di Dio definitivamente, per l’eternità. La loro scelta irrevocabile nasce dalla loro natura di puri spiriti che per decidere non hanno bisogno di ragionamenti prolungati, ma scelgono immediatamente. S. Tommaso d’Aquino afferma: “Non c’è possibilità di pentimento per loro dopo la caduta come non c’è possibilità di pentimento per l’uomo dopo la morte”. Sempre S. Tommaso riguardo al destino ultimo ed alle scelte dei puri spiriti dichiara: “Permangono immutabili nel bene o nel male subito dopo la prima scelta, perché finisce in quel momento il loro status viatoris; né spetta alla natura della divina sapienza la comunicazione di un’altra grazia ai demoni con cui siano richiamati dal male della prima avversione, nella quale perseverano ormai in modo irrevocabile”. Poiché il peccato degli angeli maligni fu molto più grave di quello degli uomini, molto più pesante fu il castigo loro inflitto. I diavoli, essendo spiriti, hanno un inferno peggiore degli uomini, molto più pesante fu il castigo loro inflitto. I diavoli, hanno un maggiore dolore spirituale poiché si rendono conto più degli uomini, della eccellenza del bene perduto e dell’enormità della perfidia realizzata. L’inferno non deve essere visto tanto come una costrizione divina contro i demoni, ma come un prolungamento del combattimento degli spiriti maligni per il regno del male. L’inferno è la realizzazione piena dell’infelicità, di chi ha voluto guadagnare la sua vita, senza Dio, ma in realtà così facendo l’ha persa (Mt. l, 35). Il fallimento del Marxismo e del Nazismo nel XX secolo ci aiutano a capire meglio l’Inferno dei demoni.

L’Ateismo marxista e il paganesimo occultista hitleriano con le loro false promesse hanno ingannato molti, ma alla fine entrambi hanno dimostrato di essere dei giganti con i piedi d’argilla. Queste due ideologie “diaboliche” hanno portato allo sterminio di decine di milioni di uomini nei lager e nei gulag rivelando così il loro perfido potere di distruzione e di degradazione del genere umano. Mentre Dio crea la vita, l’essere, i demoni realizzano il niente, il caos, la confusione e la perversione. Attenzione: non è vero che gli spiriti maligni diffondono l’ateismo; essi non sono atei, sanno bene che Dio esiste ed è all’opera, nel loro progetto di destabilizzazione della terra, l’ateismo è solo un momento di transizione perché l’obiettivo che essi propongono è l’adorazione del male. Moolenburgh ha scritto: “L’inferno vuole sempre dominare e appena si vede il desiderio di dominazione accompagnato da quella che sembra un’idea brillante, si dovrebbe manifestare qualche sospetto. Invece dell’abolizione del proletariato, si instaura la dittatura del proletariato, e invece di una cooperazione, la costituzione di un ordine stabilito. Messo in parole povere: l’ispirazione maligna prima o poi conduce al sospetto e all’odio e infine all’oppressione e all’omicidio. L’ispirazione celeste invece conduce alla fiducia e all’amore reciproci”. Riguardo all’Inferno, il Nuovo Testamento insegna con la massima chiarezza che il destino degli uomini giusti e quello degli uomini empi dopo la morte e alla fine dei tempi sarà diverso.

I Vangeli sono estremamente crudi al riguardo: “Così sarà alla fine del mondo. Verranno gli angeli e separeranno i cattivi dai buoni e li getteranno nella fornace ardente, dove sarà pianto e stridore di denti”. Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria, con tutti i suoi angeli, si siederà sul trono della sua gloria. E saranno riunite davanti a lui tutte le genti, ed egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dai capri, e porrà le pecore alla sua destra e i capi alla sinistra” (Mt. 25, 31-33). Il destino ultraterreno dei malvagi comporta l’esclusione definitiva di quella situazione che il Nuovo Testamento definisce “vita eterna”: “Poi dirà a quelli alla sua sinistra: Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli” (Mt. 25, 41). Il concetto di impedimento assoluto dei cattivi dal regno celeste di Dio è assai frequente in S. Paolo: “O non sapete che gli ingiusti non erediteranno il regno di Dio? ” (1 Cor. 6, 9). Il senso delle formule di esclusione dal Paradiso sono talmente nette che non lasciano alcuna pretesa di salvezza da parte dei diavoli e dei malvagi. Riguardo all’inferno, la dottrina della Chiesa Cattolica è assai chiara: esso è uno stato che tocca, nell’al di là, a coloro che muoiono in uno stato di peccato mortale e d’inimicizia con Dio, avendo perso l’amicizia con Dio (grazia santificante) con un atto personale libero. L’idea che le pene dell’inferno debbano durare per un tempo assai lungo e poi terminare è stata condannata dal Sinodo di Costantinopoli.

“Se qualcuno dice o Sostiene che il supplizio dei demoni e degli uomini empi è temporale e che avrà fine dopo qualche tempo o che vi sarà una restituzione o reintegrazione dei demoni e degli uomini empi, sia scomunicato”. Per il cattolico medio inferno e fuoco eterno assumono il medesimo significato; la teologia, invece, distingue due tipi di pene: quella del danno e quella del senso. Il Catechismo della Chiesa cattolica così definisce al n. 1035 la pena del danno: “La pena principale dell’inferno consiste nella separazione eterna da Dio, nel quale l’uomo può avere la vita e la felicità, per le quali è stato creato e alle quali aspira”. Oltre la pena del danno, la Bibbia afferma anche una pena del senso che tormenta diavoli e dannati e ne usa varie analogie: “lo stagno ardente di fuoco e di zolfo” (Ap. 21, 8), “la Geenna”, “le tenebre esteriori, la morte eterna, un verme che non muore” (Mc. 9, 44.46.48). S. Tommaso commenta che nel peccato, oltre all’aspetto dell’allontanamento dell’amicizia di Dio, vi è anche un eccessivo e sbagliato attaccamento alle realtà create. La pena del senso corrisponde a questo atteggiamento disordinato. La pena del senso più ricorrente nella Scrittura e nella tradizione teologica è il fuoco. S. Agostino lo definisce un fuoco misterioso perché, al contrario del nostro, è inestinguibile ed eterno, e perché ha il potere di tormentare sia i corpi sia gli spiriti. Il Magistero della Chiesa insegna che non si tratta di un fuoco metaforico, quale simbolo di dolori puramente spirituali, ma di un fuoco reale anche se non è da confondere con il nostro fuoco terrestre.

Il Concilio di Firenze, inoltre, afferma che come il grado della felicità celeste è diverso nei singoli beati, secondo il grado dei loro meriti, così le pene dell’ inferno saranno proporzionate al numero e alla gravità delle colpe. Il Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica, emanato da Benedetto XVI nel 2005, Al n. 108 afferma: “ Gesù accompagna la sua parola con segni e miracoli per attestare che il Regno è presente in lui, il Messia.

15 Marzo 2018

Fonte:   https://benedettoxviblog.wordpress.com/blog/

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INTRODUZIONE ALL’EBRAISMO

INTRODUZIONE ALL’EBRAISMO

La matrice ebraica del monoteismo 
                 
di Rav Riccardo Di Segni


 
Tra le grandi religioni monoteistiche quella ebraica è la più antica. Il suo contributo alla storia delle religioni e alla evoluzione spirituale dell’umanità è essenziale. Le altre due grandi religioni monoteistiche, Cristianesimo ed Islamismo, che raccolgono centinaia di milioni di fedeli in tutta la terra, nascono dalla matrice ebraica, a cui attribuiscono valore sacro, e dalla quale traggono continua ispirazione negli aspetti fondamentali delle proprie istituzioni religiose.

Una lunga storia tormentata e una cronaca, purtroppo ancora attuale, di polemiche e incomprensioni tende a sottolineare soprattutto le diversità che separano questi mondi religiosi; ma in una prospettiva più distaccata queste differenze sono certamente di minore importanza rispetto al complesso dei valori comuni da tutti e tre i gruppi condivisi, e che per unanime riconoscimento hanno il loro fondamento nella religione ebraica.

Il contributo del pensiero ebraico alla fondazione della società moderna non si esaurisce in prospettive strettamente religiose, ma si estende in altri ambiti, come quello civile e politico: l’esigenza di fondare una giusta società, e la tensione ad un rinnovamento “messianico” hanno precise radici nella Bibbia ebraica, e sono state trasmesse con forza e continuamente dagli ebrei sparsi in tutto il mondo.

Infine la drammatica evoluzione storica che ha fatto degli ebrei il simbolo dell’uomo perseguitato in quanto diverso, ha rappresentato per le coscienze più nobili il segno distintivo di una condizione di imbarbarimento e di negatività sociale, contro la quale lottare per la liberazione e la dignità umana.

Gli ebrei sono oggi una comunità relativamente piccola dal punto di vista numerico, circa quattordici milioni, secondo stime numeriche che hanno ampie variabili dovute a difficoltà obiettive di valutazione. Secondo le regole interne della tradizione ebraica, ebreo è colui che nasce da madre ebrea, o che si converte all’ebraismo, accettandone la disciplina religiosa.

È evidente già in questa definizione che la condizione ebraica non si esaurisce strettamente in una appartenenza religiosa; è piuttosto una appartenenza a una comunità nazionale o etnica che si riconosce in una storia comune; oggi solo una parte degli ebrei si identifica nella religione ebraica, per quanto ne accetti, in gradi molto diversi di partecipazione, le idee fondamentali o i modelli di comportamento prescritti dalla tradizione.

La società occidentale è abituata a definizioni precise, a dogmi, alla necessità di inquadramenti dottrinali; la condizione ebraica, che ha remote radici storiche, provenienti da un ambito geografico e culturale molto diverso da quello di questa società, si inserisce con difficoltà nelle moderne categorie classificatorie, mentre al suo interno rifiuta di formulare, tranne che in rarissime eccezioni, principi dogmatici e verità assolute; e questo vale in primo luogo per il problema dell’identità ebraica, almeno per come viene avvertito nella realtà quotidiana degli ebrei.

Gli ebrei di oggi sono gli eredi e i continuatori, fisici e spirituali, di una comunità nazionale e di una esperienza religiosa che ha almeno tre millenni di storia.

Parlando di millenni, l’approssimazione è d’obbligo; se da un lato il testo fondamentale dell’ebraismo, la Bibbia, cerca di dare notizie in un certo senso precise sui tempi e sui modi di sviluppo di questa esperienza, è da tener presente che esiste una tradizione critica – nata e sviluppata in particolare nel mondo protestante tedesco – che mette sistematicamente in discussione la validità delle notizie che l’ebraismo dà delle sue origini, e quindi ne sposta le date e le circostanze, mettendo in dubbio anche concetti finora ritenuti per scontati.

Secondo la narrazione biblica l’ebraismo nacque in un’epoca intorno al XIV-XV secolo prima dell’era volgare con Abramo, un nomade pastore originario di Ur dei Caldei, città mesopotamica di controversa identificazione. Abramo arrivò nella terra allora detta di Canaan, dal nome del popolo che l’abitava, e che dieci secoli dopo i Greci avrebbero iniziato a chiamare Palestina, dai Filistei, il popolo che vi si era insediato dal XII secolo nelle sue regioni costiere. Per gli ebrei il nome di questa terra rimarrà a lungo quello di Canaan, per poi divenire, fino ad oggi, la terra d’Israele.

Delle origini di Abramo la Bibbia quasi tace, e da qualche traccia del testo non si può escludere una sua condizione elitaria; egli assume la qualifica di ‘ivrì , da cui in lingua italiana ebreo, che trasmetterà ai suoi discendenti. In base ad alcuni documenti archeologici oggi si sa che un nome simile, hapiru, designasse nella società dell’epoca una classe sociale instabile, costituita da fuoriusciti privi di diritti; ma secondo la Bibbia il termine può indicare il discendente di ‘Ever, o colui “che viene dall’altra parte”: parte del fiume, in senso geografico, o in senso metaforico l’altra parte della società, essendo Abramo colui che ha operato una scelta che lo distingue da tutti gli altri.

La scelta di Abramo è quella di porsi al servizio fiducioso e rischioso di un unico Dio, abbandonando il culto degli idoli e tutto il suo mondo originario; in compenso Dio gli promette, con un patto vincolante, una discendenza numerosa come le stelle del cielo, il possesso della terra dove si è recato, abbandonando tutti, e una benedizione continua che da lui e dalla sua discendenza si irradierà a tutte le famiglie della terra.

La Bibbia poi racconta le vicende della famiglia di Abramo, del figlio Isacco, e del nipote Giacobbe; quindi dei dodici figli di questi, che saranno i capostipiti delle dodici tribù di Israele. Giacobbe con i suoi figli emigrò in Egitto, dove un altro figlio, Giuseppe, era divenuto ministro del Faraone, e così si chiuse l’epoca detta patriarcale. Giacobbe, lottando contro una figura angelica in un episodio pieno di simboli profondi e oscuri, si conquistò un nuovo nome, Israel, “colui che ha lottato con Dio”, ed è riuscito a vincere. Da quel momento la comunità sarà definita con il nome, forse più nobile, di “figli di Israele”, o semplicemente di Israele.

Sempre seguendo il racconto biblico, dopo un breve periodo di benessere egiziano, gli ebrei, che nel frattempo erano cresciuti numericamente fino a diventare un popolo, vennero sottoposti a una dura schiavitù dai Faraoni per un periodo di uno-due secoli, e quindi liberati per intervento di un grande capo, Mosè.

Questi condusse il popolo nel lungo cammino tra l’Egitto e la terra promessa, fermandosi alle falde del monte Sinai per ricevere la legge divina. Dopo quarant’anni di permanenza nel deserto Mosè morì, e il popolo entrò nella terra promessa, che riuscì a conquistare parzialmente, sotto la guida di Giosuè.

Con Giosuè inizia l’epoca detta dei Giudici, capi politici, militari e giudiziari che secondo le necessità contingenti unirono le tribù, o una parte di esse, per contrastare una minaccia esterna. All’unità nazionale si arrivò piuttosto tardivamente con la fondazione della monarchia unificata; il primo re fu Saul, a cui succedette David, di un’altra famiglia, che dette origine a una linea dinastica permanente. Il regno di David è collocato dagli storici all’inizio del primo millennio.

La presentazione biblica della più antica storia ebraica è ampiamente e variamente contestata dai critici, che arrivano da un lato a negare qualsiasi realtà storica alle scelte religiose che la tradizione attribuisce ad Abramo e all’epoca patriarcale, dall’altra proseguono negando tutta la storia della schiavitù egiziana, dell’uscita dall’Egitto e della conquista della terra di Canaan; secondo opinioni che attualmente circolano con insistenza tra gli studiosi (e che ovviamente sia i tradizionalisti ma anche i critici meno estremistici non accettano) il popolo ebraico si sarebbe formato originariamente nella terra di Canaan, fondendo genti di varie origini, e inventandosi miticamente l’intera storia patriarcale, della schiavitù e della conquista. L’unica storia vera e verificabile, in questo tipo di approccio, è quella che ha riscontri nei documenti archeologici e storici dei popoli vicini, e ciò è possibile solo con gli inizi del regno.

Dopo la morte del figlio di David, Salomome, il regno unito si divise in due; la parte settentrionale prese il nome di regno d’Israele e la meridionale di regno di Giuda (dal nome della tribù principale che lo costituiva; di qui Giudea, per designare la regione, e anche Giudei per indicare fino ad oggi gli ebrei come i discendenti sopravvissuti di questo regno).

Il regno di Israele finì nel 720, per opera degli Assiri, e i suoi abitanti deportati si dispersero senza lasciare probabilmente alcuna traccia; da allora solo il regno di Giuda rappresentò la continuità dell’ebraismo. Anche questo regno viene distrutto, nel 586, dai Babilonesi; i suoi abitanti portati in esilio in Babilonia, tornarono in parte a partire dal 538, con l’editto di Ciro. A Gerusalemme venne edificato un nuovo Tempio, e la Giudea restò sotto il dominio persiano.

Tutta l’epoca dei regni, e l’inizio dell’epoca del secondo Tempio, sono contrassegnate da una intensa attività culturale e una produzione spirituale notevole, che culminò nell’azione dei profeti, che espressero al massimo le potenzialità religiose dell’ebraismo biblico. Secondo l’idea tradizionale i libri biblici sono stati scritti nell’epoca dei fatti narrati; secondo la critica sono molto più tardi, ma in ogni caso la scrittura dei libri del Pentateuco e delle opere profetiche avrebbe avuto il suo compimento all’inizio del secondo Tempio.

Nel 332 Alessandro conquistò la regione, che quindi passò sotto il dominio dei Tolomei e poi dei Seleucidi; nel 174 con la rivolta dei Maccabei la Giudea iniziò ad avere una relativa indipendenza, che avrebbe progressivamente perduto con l’arrivo dei Romani. Nel 70 dell’era volgare il Tempio di Gerusalemme venne distrutto da Tito; nel 135 l’ultima rivolta giudaica contro i Romani fu definitivamente domata nella repressione più brutale.

Da allora gli ebrei non ebbero più unità statale, e si dispersero progressivamente per il mondo. In verità la Diaspora, la dispersione degli ebrei, era già una realtà nel primo secolo prima dell’era volgare, ma con la distruzione del Tempio e la perdita dell’indipendenza politica ebraica divenne una condizione negativa e inevitabile, senza tutela giuridica e quindi sempre più contrassegnata da discriminazioni, sofferenze e persecuzioni.

Con il trionfo politico del cristianesimo, agli inizi del quarto secolo, i rapporti di questo con l’ebraismo, tesi fin dalle origini, si tradussero nella formulazione, sempre più sistematica, di una ideologia oppositoria e quindi di sistemi giuridici di vessazione e avvilimento. Secondo il Cristianesimo il ruolo dell’ebraismo si era esaurito con l’avvento di Gesù, il Messia annunciato dalle scritture bibliche; da allora l’ebraismo non poteva essere altro che una parvenza di sé stesso, al quale tutt’al più poteva essere riconosciuto il ruolo di testimone inconsapevole della verità del Cristianesimo, e come tale, almeno parzialmente, tollerato in attesa della sua conversione.

La civiltà cristiana espresse di conseguenza nei confronti dell’ebraismo una ideologia molto poco tollerante, e nei fatti ciò produsse nel corso dei secoli discriminazioni, espulsioni e massacri. Diverso per molti aspetti fu il rapporto con la religione Islamica, che fu capace di elaborare nei confronti dell’ebraismo un sistema di relativa tolleranza, nel quale pure vi furono espulsioni e massacri, ma in misura relativamente modesta se confrontati con quelli della storia cristiana. In ogni caso la tolleranza musulmana arrivò a tollerare l’ebreo in quanto diverso, di rispettabili origini, ma pur sempre come sottomesso, mai come persona di pari dignità.

La lunga storia del rapporto difficile del mondo con gli ebrei culminò in questo secolo (ventesimo n.d.r) con la persecuzione nazista, nel corso della quale sei milioni di ebrei, pari a un terzo del popolo ebraico allora vivente, venne massacrato. A tre anni dalla fine della guerra mondiale, nel 1948 un altro evento decisivo ribaltò la storia ebraica, con la fondazione dello Stato d’Israele, creato per volontà del movimento sionista, che proponeva in forma politica l’antico ideale della raccolta delle Diaspore. Il resto è storia recente di vivissima attualità quotidiana.

Se per la antica teorizzazione cristiana l’ebraismo aveva praticamente cessato di vivere spiritualmente con la nascita di Gesù, la realtà dei fatti è radicalmente diversa. I primi secoli dell’era volgare sono contrassegnati da una produzione culturale, che ha come protagonisti i rabbini, cioè i maestri della tradizione giuridica e spirituale di Israele, che elaborarono e sviluppano un enorme patrimonio morale e giuridico. L’ebraismo stesso cambiò aspetto, per effetto degli avvenimenti di cui era stato vittima.

Nell’anno 70 la distruzione, da parte dei Romani, del Santuario di Gerusalemme privò l’ebraismo del centro fisico della sua vita cultuale, nella quale avevano una importanza essenziale i riti sacrificali e l’osservanza di pratiche di purità, e dei quali erano protagonisti e custodi i sacerdoti: tali si è, nell’ebraismo, per nascita, discendendo dalla stirpe sacerdotale di Aron, fratello di Mosè.

Nel momento in cui l’ebraismo politico si avviava alla tragedia della sua distruzione si avvertì il rischio che questa rovina potesse trascinare con sè anche il mondo spirituale e religioso dell’ebraismo. Rabban Jochannan ben Zakkai, il capo spirituale della sua generazione, decise di assumersi la responsabilità di venire a patti con i Romani e di salvare il salvabile. Fuggì da Gerusalemme assediata con uno stratagemma: fece annunciare la sua morte e si fece portare fuori dalla città in una bara. Riuscì quindi a parlare con Tito, e gli strappò la concessione di una zona franca nella quale poter insediare il Sinedrio, il massimo tribunale rabbinico, e continuare la trasmissione della cultura ebraica attraverso lo studio e l’insegnamento.

Fu così possibile riorganizzare un mondo religioso che doveva trovare la sua nuova identità dopo che alcune sue strutture essenziali, legate al Santuario, erano venute a mancare. Fu questo l’epilogo di una lunga storia di contrapposizioni tra i due poli culturali e religiosi dell’ebraismo, quello sacerdotale e quello rabbinico. Il rabbino, a differenza del sacerdote, non è tale per nascita, ma è un maestro della dottrina religiosa, che è arrivato a questa dignità con lo studio e con la pratica di una condotta esemplare. Con la distruzione del Tempio, finito il ruolo del sacerdozio (in senso pratico, anche se tuttora i sacerdoti nell’ebraismo esistono, senza le funzioni di un tempo), furono i rabbini ad assumere la guida culturale e spirituale dell’ebraismo.

Da questa opera grandiosa, che si compì nel quinto secolo, nacque la letteratura talmudica, che fu la base delle elaborazioni successive. Nei secoli seguenti ogni generazione fu segnata dalla presenza di grandi personalità dello spirito che svilupparono in diversi aspetti le potenzialità religiose dell’ebraismo: dall’aspetto rituale e giuridico a quello filosofico, fino a quello del fervore religioso e all’esperienza mistica. Quest’ultima, dopo essere stata per secoli patrimonio di pochi, nel XVIII secolo in Europa Orientale riuscì a coinvolgere, con il movimento chassidico, grandi masse in espressioni di intensa spiritualità, che ancora oggi ispirano e dirigono la vita religiosa di ampie fasce di comunità ebraiche.

Anche in una evoluzione storica così lunga e articolata è possibile mettere in evidenza alcuni punti essenziali e comuni che rappresentano le basi fondamentali dell’ebraismo. La più importante è l’idea monoteistica. Questa idea apparve nell’antichità come una vera e propria rivoluzione, forse preannunciata da alcune intuizioni presso gli egiziani, ma che solo nella cultura ebraica trovò uno sviluppo fecondo e costante, una fedeltà assoluta, insieme alla determinazione storica a mantenerla e a mantenerla a ogni costo.

Il Dio in cui crede Israele è l’unico ritenuto possibile, creatore di tutta la realtà esistente, che non ammette alcuna divisione di ruoli; non esiste al di fuori di Lui alcun altro dio; gli idoli in cui l’uomo pone fiducia non hanno senso, non hanno fondamento. Nulla può esistere senza di Lui, mentre Egli preesiste alla creazione e a ogni realtà.

Fin dalle origini l’ebraismo immagina questo Dio come unico non solo nel suo ruolo, ma anche nella sua essenza; e per quanto nella Bibbia si moltiplichino le espressioni antropomorfiche, che rappresentano simbolicamente gli interventi divini sulla terra, è chiara la coscienza che la realtà divina non ha nulla a che fare con quella materiale e umana; è infinita, assolutamente spirituale e incorporea, non rappresentabile: ogni immagine che se ne pretenda di fare è una terribile offesa, un tentativo di rapportare alle dimensioni umane un’essenza che per definizione non le appartiene.

Ma qui l’idea ebraica sviluppa il suo paradosso essenziale: se da un alto la realtà divina è assolutamente superiore e diversa da quella umana, al punto che non sarà mai possibile arrivare a comprenderla nel suo aspetto più profondo; dall’altra l’ebraismo pretende che questa realtà sia, per quanto imperscrutabile, estremamente vicina all’uomo. In molti sensi differenti, iniziando dall’essenza stessa dell’uomo, che è creato a immagine e somiglianza divina, concetto che si esprime nelle sue qualità intellettuali, nella sua dignità, nella possibilità di scelte morali, nella parola, nelle capacità di dominare la realtà e di trasformarla; quindi nel governo divino della storia, per cui si ammette, anzi si sostiene con forza, l’idea di un intervento continuo da parte di Dio nelle vicende umane.

Ciò si esprime in vari modi: nell’insegnamento agli uomini di una strada corretta da seguire, e nell’illuminazione di personalità eccezionali che comunicano agli uomini questi insegnamenti in momenti speciali; poi nella garanzia di un ordine in cui la giustizia e la rettitudine siano conservati. L’ebraismo crede nel concetto della ricompensa e della punizione, e vede in Dio il garante di questo ordine, che privilegia la giustizia.

Forti di questa fede, per secoli gli autori ebrei, dal libro dei salmi a Giobbe, alla letteratura rabbinica, fino ai pensatori della nostra epoca, hanno cercato di trovare una tormentata risposta al problema della sofferenza del giusto in questo mondo. La questione della ricompensa è stata risolta in vari modi: pensando ad esempio a una realtà successiva e diversa da quella di questo mondo, riservata come premio ai giusti; oppure elaborando una concezione divina come criterio assoluto, stimolo e modello da imitare nella promozione della dignità umana; o evitando di affrontare direttamente il problema, avvertendo la realtà quotidiana, anche nei suoi aspetti negativi, come segno di una volontà che per noi è incomprensibile, ma che è pur sempre giusta. Solo raramente, e forse di più nella nostra epoca, dopo Auschwitz, è stata messa in dubbio la tutela divina sulla storia.

Ma il Dio adorato da Israele non è soltanto, come si è soliti pensare, il terribile garante della giustizia e il tremendo e collerico punitore degli empi. Questa è un’immagine distorta e parziale, che l’ebraismo ha ricevuto dalle polemiche antiebraiche di alcuni circoli cristiani, che hanno voluto delineare una presunta opposizione tra il Dio dell’Antico Testamento, vendicativo e collerico, e quello del Nuovo, fatto di solo amore. In realtà nell’una e nell’altra tradizione Dio è giustizia e amore.

Basti leggere per l’Antico Testamento la splendida parabola dell’ultimo capitolo di Giona, in cui Dio insegna che il mondo non si può reggere sulla sola giustizia, e che Dio è un padre misericordioso, che ha pietà per tutte le sue creature. Amore e giustizia sono i prototipi dei due attributi divini con i quali la tradizione rabbinica immagina la presenza, che per la mente umana è apparentemente contraddittoria, della realtà divina nella storia, dalla creazione (che fu atto d’amore, perché sulla sola giustizia il mondo non avrebbe potuto resistere un solo istante), alla vicenda quotidiana.

Secondo la concezione ebraica la volontà divina sulla terra si realizza e si esprime secondo un programma preciso, che è stato consegnato all’uomo. Questo programma ha un nome, è la Torà, l’insegnamento divino, e si identifica inizialmente con la prima parte della Bibbia, il Pentateuco.

In questo libro sono narrate e interpretate in chiave religiosa le vicende essenziali che segnano la vocazione del popolo ebraico al servizio divino. Una piccola tribù di pastori seminomadi, diventata popolo e soggetta in schiavitù in Egitto, si immagina come legata ad una missione speciale nei confronti dell’umanità da un vincolo che ha stretto con il Dio di cui i suoi patriarchi hanno cominciato a scoprire l’esistenza.

Questo vincolo è il patto, o meglio una serie di patti che Israele strinse con Dio, stabilendo un impegno per tutte le generazioni successive. Da un lato Israele riconosce Dio come il suo Signore, e si impegna a osservarne la volontà, che è quella espressa nei comandi della Torà; dall’altra Dio sceglie Israele come suo popolo, lo considera un reame di sacerdoti, e gli promette, in una terribile sfida storica, il bene e il male che possono nascere da una scelta e da un impegno superiore.

L’elezione di Israele non è un dono incondizionato, ma una sfida e una provocazione continua, che comportano un prezzo altissimo. Un insegnamento rabbinico sostiene che Dio ha fatto tre buoni doni ad Israele, ma tutti quanti a prezzo di grandi sofferenze: la Torà, la terra d’Israele, il mondo futuro. Tra le poche consolazioni, è la coscienza di Israele, che anche nelle peggiori circostanze sa che l’impegno divino non è rinunciabile né soggetto a ripensamenti, e che Dio quindi non potrà mai lasciare il suo popolo e svincolarlo dal suo patto. Israele si considera come “un reame di sacerdoti” rispetto all’umanità, nel senso che si è imposto, come tutti coloro che sono sottoposti a servizi speciali, una disciplina aggiuntiva che gli altri non devono o vogliono avere.


Da questi presupposti nasce una dottrina articolata sui rapporti con gli altri popoli e le altre fedi, che ha già notevoli espressioni nei libri profetici della Bibbia e che poi la tradizione rabbinica sviluppa. Vi sono elementi particolaristici, insieme a visioni di respiro universale. L’umanità tutta è chiamata da Dio, e l’elezione di Israele non esclude altre elezioni. Solo che la disciplina imposta ad Israele, che si esprime nei 613 doveri o precetti che sono prescritti dalla Torà, non deve essere necessariamente condivisa da altri.

Per tutti i popoli, che vengono chiamati tecnicamente i “noachidi”, cioè i discendenti da Noè, sopravvissuto con la sua famiglia al diluvio, c’e ugualmente una strada aperta per un rapporto sacro con Dio e per conseguire la pienezza dei beni e la benedizione che non è esclusiva per Israele, ma di cui Israele si considera solo un annunciatore e un promotore. Ai popoli della terra per arrivare al livello di “giusti” sarà sufficiente il rispetto di una normativa essenziale, che nella tradizione rabbinica è stata riassunta in sette principi, che riguardano il rapporto con Dio (rifiuto dell’idolatria e della bestemmia), con gli altri uomini (divieto di omicidio e di furto, costituzione di tribunali) e il rispetto dell’ordine “naturale” (morale sessuale essenziale, rispetto degli animali).

L’ebraismo ha sempre avvertito, fin dalle origini, la tensione tra le realtà oggettiva del momento e il desiderio di vedere realizzate tutte le sue speranze e i suoi ideali. Molti ideali hanno un senso concreto: per quanto riguarda Israele, la fine della sua dispersione e della sofferenza in mezzo alle nazioni del mondo, e il ritorno dei dispersi nella terra d’Israele; l’esigenza di una società fondata e dominata dalla giustizia, sia all’interno del popolo d’Israele, sia più in generale nei rapporti tra le nazioni del mondo; la fine delle violenze e degli strumenti di violenze; di qui progressivamente la prospettiva ideale si allarga su immagini escatologiche di redenzione universale e totale.

Tutte queste speranze hanno un nome comune, messianesimo, da “messia” che in ebraico indica l’attributo del re, che saprà fondare la società giusta. È importante rilevare che nella Bibbia ebraica, così come nella tradizione successiva, non esiste una formulazione unitaria di queste idee, che convivono anche con molte contraddizioni e opposizioni. Ma l’elemento comune in tanta diversità è la coscienza dell’imperfezione, la costanza della tensione, che segna la vita dell’ebreo con un anelito continuo al rinnovamento.

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Il VANGELO EBRAICO

Il VANGELO EBRAICO

Le vere origini del cristianesimo

Daniel Boyarin

Nel luglio del 2008 il “New York Times” riferiva in prima pagina di uno sconvolgente ritrovamento: un’antica tavola, un grosso e pesante pezzo di pietra con 87 righe incise in ebraico. Risaliva a prima della nascita di Cristo e conteneva una profezia, l’annuncio di un Messia che sarebbe risorto tre giorni dopo la morte.

È solo uno dei tasselli con cui Daniel Boyarin, fra i più noti talmudisti viventi, ci spiega che la storia del Nazareno non rappresenta affatto, come da secoli si ritiene, un momento di rottura con il senso religioso ebraico. La percezione convenzionale di una netta divisione tra cristiani ed ebrei, diffusa tanto da una parte quanto dall’altra, non tiene conto di una natura comune profondamente e radicalmente unitaria. Gesù era un ebreo osservante, un ebreo che mangiava kosher. Si era presentato nel modo in cui molti ebrei si aspettavano che facesse il Messia: un essere divino incarnato in un uomo. All’epoca dei fatti, del resto, la questione non era: “Giungerà il Messia?”, ma solo “Questo falegname di Nazareth è Colui che aspettavamo?”. Alcuni credettero di sì, altri di no. E oggi noi chiamiamo il primo gruppo cristiani e il secondo ebrei, anche se, in principio le cose non stavano così. Con una sorprendente rilettura del Nuovo Testamento e l’aiuto delle più recenti scoperte e delle Antiche Scritture, Il Vangelo ebraico risale alle origini di una divisione millenaria che oggi, secondo Boyarin, dobbiamo avere il coraggio di capire e superare, andando oltre le convenzionali semplificazioni.

Hanno scritto:

  • “La visione di Boyarin è rivoluzionaria. Eppure, quelli che racconta sono solo fatti storici” The Washington Post
  •  “Quest’affascinante ricostruzione della storia di Gesù cambierà l’idea delle persone sulle origini del cristianesimo e sul suo complicato rapporto con l’ebraismo” Elliot Wolfson, professore di Lingua e Storia ebraica all’Università di New York

Chi è l’Autore:

  • DANIEL BOYARIN – Professore di Cultura talmudica e di Retorica all’Università della California, è riconosciuto a livello internazionale come uno dei maggiori studiosi di Talmud e come grande divulgatore della cultura ebraica. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo A radical Jew (University of California Press, 1997), Border Lines (University of Pennsylvania Press, 2006), Socrates and the Fat Rabbis (University of Chicago Press, 2009) e, in Italia, Morire per Dio (Il Nuovo Melangolo, 2008). Vive a Berkeley, in California. 

Prefazione di:

    • JACK MILES Professore di Letteratura inglese e di Studi Religiosi all’Università della California, è l’autore di Dio: una biografia (Garzanti, 1996) per il quale ha vinto il Premio Pulitzer. Collabora con il “New York Times”, il “Washington Post”, il “Los Angeles Times” e il “Boston Globe”. Tra le altre sue pubblicazioni ricordiamo anche Gesù: una crisi nella vita di Dio (Garzanti, 2003).

    Jack Miles

    “Non molto tempo fa, un importante rabbino conservatore mi ha confidato: «Daniel Boyarin è uno dei due o tre massimi luminari rabbinici al mondo». Poi, abbassando un po’ la voce, ha aggiunto: «Forse addirittura il più grande». Questa osservazione mi è stata fatta in confidenza perché era evidente il turbamento del rabbino all’idea che qualcuno con le tesi di Boyarin potesse averle davvero fondate su base talmudica. Da cristiano, lasciatemi dire in tutta franchezza che queste idee possono turbare anche quei cristiani che hanno apprezzato l’originalità — altrettanto fondata — della sua lettura del Nuovo Testamento.
    Le brillanti idee di Boyarin ci turbano poiché complicano i rapporti tra due identità reciprocamente stabilite, e ne sfumano i contorni. Il suo maggior merito è di aver assunto un fermo controllo concettuale su tale reciprocità e di averla illustrata in una coraggiosa rilettura tanto dei testi rabbinici quanto dei Vangeli, una rilettura i cui risultati sono così allarmanti che, una volta compreso dove va a parare, a noi — ebrei, o cristiani — non resta che interpretare anche i passaggi più familiari delle sacre scritture in una luce del tutto nuova.

    Credo che il modo migliore per spiegare questo punto sia offrire un esempio piuttosto recente. Nel nostro vicinato c’è una famiglia con due gemelli, Benjamin e Joshua. Visto che sono eterozigoti, non hanno il medesimo aspetto e sono diversi anche da altri punti di vista. Ben è un atleta, un ambizioso senza scrupoli che guadagna a colpi di spintoni quel che non riesce a raggiungere con l’abilità. Josh invece è un cantautore in erba dagli occhioni romantici, il cui secondo amore, dopo la sua fidanzata, è la chitarra. La madre, che viene da una famiglia di atleti, ama dire di Ben: «È tutto maschio, quello lì». Il padre, che discende da una famiglia di musicisti e di romantici, predilige Josh.
    Dal momento che sono gemelli e che condividono la stessa stanza da quando erano bambini, Ben e Josh si conoscono molto bene. Ben sa perfettamente che Josh lo può battere in un match di baseball uno contro uno. E Josh sa che Ben è in grado di eseguire una melodia in due parti con una dolce voce tenorile che nessun altro, a parte loro due, ha mai sentito. Ma ciò che sanno l’uno dell’altro ha finito per contare sempre meno nel corso del tempo, mentre la versione «percepita» delle loro identità ha preso il sopravvento nella cerchia estesa di amicizie e conoscenze. (…)

    Daniel Boyarin vede l’ebraismo e il cristianesimo come Josh e Ben, anche se in ballo non ci sono lo sport e la musica. In ballo, piuttosto, c’è la questione — sempre cruciale ma forse non più di quanto lo fosse nel 70 d.C., dopo la distruzione del Tempio di Gerusalemme — di come gli ebrei dovrebbero relazionarsi col loro Dio e con la maggioranza gentile dell’umanità. Prima della distruzione del Tempio vi erano numerose scuole di pensiero in lizza su questo punto dirimente. E dopo la catastrofe, le uniche due a restare in piedi furono quella rabbinica e quella cristiana. Teologicamente parlando avevano le loro differenze, ma erano entrambe di stampo ebraico, così come Ben e Josh sono fratelli all’interno della medesima famiglia. Le differenze, come nell’esempio che ho portato, erano tutte all’interno della famiglia, e lì sono rimaste non solo per qualche decennio ma, come afferma Boyarin chiaro e tondo, per i primi secoli dell’era volgare. Ci è voluto così tanto per far sì che un’escalation di polemiche reciproche finisse per sopravanzare un senso profondo di fratellanza e creare due identità reciprocamente stabilite laddove, in origine, ve n’era solo una, per quanto non sedimentata.

    Ciò che Boyarin denigra è la semplificazione polemica di queste due identità, un involgarimento che ha spinto entrambe le fazioni a ripudiare, quasi fossero spinte da principi inestirpabili, pratiche e credenze che in origine ciascuna delle due avrebbe tranquillamente riconosciuto come proprie. È come se i pronipoti di Ben crescessero con questo dogma: «Noi non tocchiamo mai la chitarra, sono loro che suonano la chitarra, perché son fatti così». Mentre i discendenti di Josh, analogamente, dovessero giurare e spergiurare: «Noi non tocchiamo mai un pallone, sono loro che giocano a pallone, perché son fatti così».

    Gesù mangiava kosher? Se sì, sarebbe stato così poco cristiano da parte sua? Nel terzo capitolo del libro che vi accingete a leggere, Boyarin scrive: «Molte (se non tutte) delle idee e delle pratiche del movimento cristiano del I secolo, dell’inizio del II secolo d.C. e anche dei periodi successivi possono essere interpretate con certezza come parte integrante delle idee e delle pratiche dell’ebraismo di quei tempi. Le idee della Trinità e dell’incarnazione, o almeno gli embrioni di tali idee, erano già presenti tra i seguaci del credo ebraico molto prima che Gesù arrivasse sulla scena per incarnare tali nozioni teologiche e rispondere alla chiamata messianica».

    La Trinità… un’idea ebraica? L’incarnazione un’idea ebraica? Oh sì! E se pensieri come questi vi sembrano inconcepibili, posso solo insistere: continuate a leggere. Potrebbero sembrarvi tutt’altro che inconcepibili dopo aver letto l’analisi ben fondata di Boyarin del background ebraico relativo allo strano titolo di cui Gesù si fregia, Figlio dell’Uomo, una designazione che in teoria dovrebbe significare solo «essere umano», ma in realtà denuncia, tanto chiaramente quanto paradossalmente, un’identità divina molto più di quanto non faccia la più prevedibile, regale o messianica designazione di Figlio di Dio“.

    Dalla Prefazione di Jack Miles,  
    “Corriere della Sera” del 23 settembre 2012

    castelvecchieditore.com

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