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Rav Elio Toaff: nel ricordo di Marco Cassuto Morselli – Presidente AEC-Roma

Rav Elio Toaff: nel ricordo di Marco Cassuto Morselli – Presidente AEC-Roma


«Oggi che il cristianesimo mostra di voler tornare alle origini»
Il contributo di Rav Elio Toaff al dialogo ebraico-cristiano
«La mia storia ha inizio a Livorno, la città dove sono nato e dove ho imparato a fare il rabbino. Mio padre, allievo di Pascoli e di Benamozegh, era un uomo di vasta e profonda cultura e dirigeva all’epoca il Collegio rabbinico livornese, in cui si erano formati, per oltre tre secoli, alcuni dei più famosi rabbini del mondo. Io fui l’ultimo allievo a terminare gli studi in quella scuola: divenni infatti rabbino nell’autunno del 1939, poco prima che il Collegio venisse chiuso a causa delle leggi razziali, dell’antisemitismo montante e della guerra»[1].
            Nella prima riga della sua autobiografia Rav Elio Toaff nomina Livorno, e subito dopo, insieme, suo padre Rav Alfredo Sabato Toaff e il di lui maestro Rav Elia Benamozegh. Come scrivevo riferendomi a Benamozegh ne I passi del Messia: «Riteniamo non sia un caso che proprio il discepolo di un suo discepolo, ossia Rav Elio Toaff, abbia accolto nel 1986 nella Sinagoga di Roma Giovanni Paolo II… Altri 14 anni, e il Papa sarebbe salito in Israele e a Yerushalayim…»[2].
            1. Intorno al 1867, nel preparare una relazione che accompagnava i programmi di studio del Collegio rabbinico livornese, Benamozegh scriveva: «Si comprese la necessità di porsi al livello dell’ebraismo europeo, ed anche che la scienza non è essenzialmente ereticale e che Livorno poteva sperare di serbarsi ortodossa diventando scientifica. […] Nei vari insegnamenti è intendimento dell’insegnante di porsi e porre a giorno i suoi scolari dello stato attuale e del progresso delle varie ebraiche discipline, sceverando in tutta la moderna cultura il grano dal loglio, segnatamente nella teologia e la filosofia in generale, e di combattere gli errori dominanti e più perniciosi»[3].
            L’indirizzo degli studi ebraici ideato e attuato da Benamozegh rimase invariato anche dopo di lui, portato avanti dai suoi discepoli, in primis Rav Samuele Colombo e Rav Dante Lattes. Così ricorda la Scuola benamozeghiana Rav Alfredo Sabato Toaff: «Per un quarto di secolo Samuele Colombo, nella scuola e fuori, insegnò e fece apprezzare con la parola e con l’esempio le teorie del Maestro; Dante Lattes, da quarant’anni, nella sua opera di giornalista e di scrittore dedica alla verità ebraica, di cui è banditore e apologista efficace, la sua viva intelligenza e le sue doti preclare di pensatore e polemista dotto e brillante». Subito dopo, Rav Alfredo Sabato Toaff ricorda il giorno in cui ricevette da Benamozegh il titolo di Maskil: «Quanto a me, ho presente sempre alla memoria quella mattina di Sabato del 1898 in cui Elia Benamozegh dette la Semichah a Dante Lattes del titolo di Hacham ed a me di quello di Maskil, né ho dimenticato le parole che Egli, ponendomi sul capo il taleth, mi sussurrava all’orecchio: “Ricordati che per me questa non è una formalità; conto molto su di te!”»[4].
            Nel 1900 il successore di Benamozegh a Livorno fu Rav Samuele Colombo[5], e nel 1923 fu Rav Alfredo Sabato Toaff  a succedergli a sua volta e a raccogliere l’eredità del Maestro.
            Elio Toaff conseguì la laurea rabbinica nel 1939, di fronte a una Commissione composta da Rav Augusto Hasdà di Pisa, Rav Ermanno Friedenthal di Verona e Rav Dario Disegni di Torino.
Colui che più di tutti aveva curato la sua preparazione era stato suo padre, e l’insegnamento continuò pure dopo il conseguimento del titolo. Anche in fuga, durante la guerra, nascosti a Nocette, tra Viareggio e Camaiore, la maggior parte del tempo la passavano studiando insieme.
Avvenne allora che, avvicinandosi Pesah, si dovevano preparare le azzime e il vino e procurarsi una Haggadah. Il padre ricordava la Haggadah a memoria, per cui gli riuscì di metterla per iscritto, un po’ di farina venne trovata, ma come fare per il vino? Anche in questo caso venne in aiuto l’insegnamento di Benamozegh: il padre  raccontò che il suo maestro gli aveva spiegato in che modo i suoi antenati, in Marocco, facevano il vino per la festa con l’uva passa. Elio riuscì a procurarsi due chili di uva passa, che venne messa per una settimana in un recipiente con quattro litri d’acqua, poi coperto con un velo: «Quando finalmente andammo a vedere cosa era successo, constatammo con grande meraviglia che nel recipiente c’erano bei chicchi d’uva che sembravano freschi. Li prendemmo e li pigiammo e poi li lasciammo là a fermentare. Quando il liquido cominciò a bollire, lo filtrammo e lo mettemmo in bottiglie. Vennero fuori tre bottiglie e mezza di vino»[6].
             Alain Elkann gli domandò una volta se era divenuto rabbino per vocazione, se aveva sentito una chiamata. Questa la sua risposta: «Le dirò, io ero affascinato da quello che faceva mio padre. Era l’esempio che io avevo di una vita ben vissuta: la sua dedizione, la sua conoscenza profonda, non soltanto dell’ebraismo, ma anche del mondo classico. Lui era un grecista di chiara fama, conosceva a memoria i lirici greci. […] Da lui ho avuto questo insegnamento: che l’ebraismo deve essere completato da una profonda conoscenza della civiltà, della letteratura, della storia del paese in cui viviamo, perché altrimenti mancherebbe qualche cosa e saremmo fuori dalla realtà»[7].
            Qualche anno più tardi Elkann gli chiese: «Cosa le ha insegnato suo padre?» e lui rispose: «Tutto. Io non sono mai stato nelle scuole pubbliche, sono sempre stato alle Scuole ebraiche e al Collegio rabbinico dove l’orario delle lezioni era questo: una lezione di italiano, una di Talmud, una di greco, un’altra di Bibbia, e così via. Questo ci ha fatto scoprire come ci fosse qualcosa che legava tutto, che la parte ebraica non era avulsa, che non era divisa, separata. Noi vivevamo in un mondo dove il mondo classico e l’ebraismo convivevano naturalmente»[8].
            Nel Dopoguerra, si trattava di ricostruire la vita ebraica in Italia dopo le devastazioni: ottomila deportati, Sinagoghe distrutte, Comunità disperse. A Roma viene riaperto il Collegio rabbinico italiano. Nominato nel 1946 Rabbino Capo di Venezia, Elio Toaff organizza una “Jeshivà Ozar ha-Torà” alla quale partecipano quasi tutti i Rabbini italiani. Le lezioni sono tenute da Rav Alfredo Sabato Toaff: «Mio padre fu un maestro eccezionale, sapiente, colto, instancabile, e seppe ridestare in noi l’interesse per la cultura ebraica, per cui alla fine del corso eravamo tutti soddisfatti, e felici di aver potuto ricominciare a dedicare il nostro tempo a quello studio che è sempre stato la base della vita di ogni ebreo»[9].
            Nel 1951 Rav Elio Toaff viene chiamato a Roma. Nella cerimonia per l’insediamento «io aprii il corteo dei rabbini e degli officianti e mi recai davanti all’Arca della Torà dove ad attendermi c’erano i membri della Consulta rabbinica italiana. Mio padre si fece avanti e con voce commossa pronunciò in ebraico queste parole: “In nome della Consulta rabbinica italiana io ti saluto Rabbino Capo degli ebrei di Roma”»[10].
            2. Tra gli insegnamenti ricevuti dal padre, Elio Toaff ricorda quello di non essere a priori diffidente nei confronti dei preti e della Chiesa: «Notoriamente gli ebrei hanno sempre provato una certa diffidenza nei confronti dei preti e della Chiesa, e la cosa appare abbastanza giustificata se si considera che per circa duemila anni la Chiesa li ha emarginati, perseguitati e persino mandati a morte a causa della loro fedeltà all’antica religione, trasformandoli in un popolo disprezzato e reietto. […] Da questa giustificabile diffidenza, però, mio padre mi aveva insegnato a prendere le distanze, sostenendo che dovunque c’è il buono e il cattivo, e che occorre valutare caso per caso se si vuole essere obiettivi e non cadere negli stessi errori di coloro che, giudicando gli ebrei, generalizzano mettendo tutti nello stesso calderone»[11].
            Il padre era amico del canonico Polese, con il quale aveva in comune la passione per i libri, del parroco di Santa Maria del Soccorso, che abitava nel loro stesso palazzo, e anche il Vescovo si intratteneva con lui per avere delucidazioni su passi biblici o rabbinici. Nel periodo delle persecuzioni «furono proprio i preti, quelli più semplici e modesti, che iniziarono generosamente a dimostrare ai perseguitati la loro solidarietà, con i fatti e non con le parole»[12]. Nella primavera del 1949, nel periodo veneziano,  un parroco venne a informarlo che il Patriarca Agostini avrebbe avuto piacere di conoscerlo. L’invito fu accettato e così si incontrarono: «Il patriarca non sedette sul tronetto che era al centro della sala, ma in poltrona vicino a me. Parlammo di tanti argomenti, della mia Comunità, dell’Olocausto, della nascita dello Stato d’Israele, ed ero stupito nel vedere con quanta affabilità mi parlava e quanta comprensione dimostrava per i problemi così gravi che il popolo ebraico stava affrontando per la ricostruzione. Fu quella la mia prima positiva esperienza di un processo di distensione e di avvicinamento che nel corso degli anni doveva manifestarsi in tutta la sua ampiezza e importanza»[13].
            A Roma le occasioni d’incontro si moltiplicarono. Frequentando la biblioteca del Pontificio Istituto Biblico conobbe padre Agostino Bea, poi ebbe modo di collaborare con padre Cornelius Adriaan Rijk, direttore del Sidic, ed ebbe anche frequenti contatti con padre Mariano, un cappuccino molto noto perché aveva una sua rubrica in televisione: «Questa fiducia, che tanti religiosi intelligenti e onesti mi dimostravano, mi dava soddisfazione e mi faceva piacere, perché era la prova che la mia azione nella Comunità ebraica, volta a dissipare sospetti e rancori secolari in vista di un futuro migliore di comprensione e di apprezzamento, stava dando i suoi frutti, abbattendo le difficoltà e lo scetticismo di chi non credeva che alle parole sarebbero seguiti i fatti»[14].
            La notte in cui Giovanni XXIII entrò in agonia, Toaff sentì imperioso il bisogno di unirsi ai tanti cattolici che vegliavano in preghiera a piazza S. Pietro. Era un omaggio al Papa che aveva convocato il Concilio nel quale sarebbe stata approvata Nostra Aetate, un uomo «semplice, buono, sensibile e onesto» che un Sabato mattina si era fermato a benedire gli ebrei che uscivano dalla Sinagoga «ed era forse quello il primo vero gesto di riconciliazione»[15].
            Il primo incontro con Giovanni Paolo II ebbe luogo l’8 febbraio 1981 nella canonica di San Carlo ai Catinari. Era stato il Papa, in visita a quella Chiesa al confine con il Ghetto, a esprimere il desiderio di incontrarlo. Rav Toaff fu colto di sorpresa, ma dopo aver riflettuto decise di accettare: «Il doloroso passato dell’umiliante clausura nel ghetto, caratterizzato per noi ebrei di Roma dalla sofferenza e dalla emarginazione, seppure non può e non deve essere dimenticato, perché è nelle radici degli ebrei di questa città, e fa parte della loro storia come dei loro sentimenti, certamente deve cedere il passo di fronte alla nuova realtà che, a partire dal Concilio Vaticano II, sta riscoprendo i valori del giudaismo, raccomandando ai cristiani il ritorno alle loro origini per la ricerca della loro più profonda identità»[16].
            Proprio la fiducia in questi nuovi rapporti consentiva a Rav Toaff di trovare i canali giusti per far pervenire la sua protesta tutte le volte che qualche episodio a suo avviso contrastava con i nuovi orientamenti.
            All’inizio del 1986 con molta cautela mons. Mejia iniziò a sondare il terreno per vedere se sarebbe stata possibile una visita del Papa in Sinagoga. Anche questa volta Rav Toaff fu colto di sorpresa: «Ricordavo ancora con tristezza quando, al funerale di mio padre, il vescovo di Livorno non aveva potuto entrare nel Tempio per assistere alle preghiere perché – aveva spiegato – una regola secolare glielo impediva. Come avrebbe potuto farlo oggi il Vescovo di Roma?»[17].
            Toaff rifletté, si consultò con il Consiglio della Comunità, poi con la Conferenza dei rabbini europei, e la decisione fu presa. Il 13 aprile 1986 «alle 17.15 Giovanni Paolo II fece il suo ingresso nel giardino del Tempio, venne verso di me a braccia aperte e mi abbracciò. E mentre lui si accingeva  a entrare nella Sinagoga gremita e a compiere quel gesto di riparazione che doveva ricomporre una frattura di secoli, io mi sentii schiacciare dal peso di tutto il dolore che il mio popolo aveva patito in duemila anni. […] Passai in mezzo al pubblico silenzioso, in piedi, come in sogno, il papa al mio fianco, dietro cardinali, prelati e rabbini: un corteo insolito, e certamente unico nella lunga storia della Sinagoga. Salimmo sulla Tevà e ci volgemmo verso il pubblico. E allora scoppiò l’applauso. Un applauso lunghissimo e liberatorio, non solo per me, ma per tutto il pubblico, che finalmente capì fino in fondo l’importanza di quel momento»[18].
            Dopo aver reso omaggio a Giovanni XXIII e a Jules Isaac, dopo aver ricordato i martiri ebrei di ogni tempo, dopo aver indicato alcuni punti di un lavoro comune a beneficio dell’umanità, Rav Toaff toccò quel tema che ancora oggi è problematico e di urgente attualità: «Il ritorno del popolo ebraico alla sua terra è stato chiamato, dai nostri maestri, l’inizio dell’avvento della Redenzione. Esso deve essere riconosciuto come un bene e una conquista irrinunciabili per il mondo, perché prelude – secondo l’insegnamento dei Profeti – a quell’epoca di fratellanza universale a cui tutti aspirano e a quella pace redentrice che trova nella Bibbia la sua sicura promessa. Il riconoscimento a Israele di tale insostituibile funzione sul piano della redenzione finale, che Dio ha promesso, non può essere negato»[19].
            Sempre nel 1986, il 27 ottobre, venne organizzata ad Assisi la prima giornata interreligiosa di preghiera per la pace, alla quale Rav Toaff partecipò con una delegazione perché «pregare per la pace è un dovere preciso per ogni ebreo»[20].
            Nel 1993 vennero stabilite regolari relazioni diplomatiche tra lo Stato d’Israele e la Santa Sede e nel 2000 Giovanni Paolo II salì in pellegrinaggio a Gerusalemme, deponendo tra le pietre del Kotel una commovente richiesta di perdono:
«Dio dei nostri padri,
tu hai scelto Abramo e la sua discendenza
perché il tuo Nome fosse portato alle genti:
noi siamo profondamente addolorati
per il comportamento di quanti
nel corso della storia hanno fatto soffrire questi tuoi figli,
e chiedendoti perdono vogliamo impegnarci
in un’autentica fraternità
con il popolo dell’alleanza.
Per Cristo nostro Signore»
3. Ricordando nel 1985 la figura di Yoseph Colombo, figlio di Rav Samuele Colombo, Elio Toaff scriveva: «Il mio desiderio, ed il suo, era quello di pubblicare nella rivista del Collegio rabbinico, un po’ alla volta, tutte le opere [di Benamozegh] rimaste inedite ma ora che egli non c’è più, la realizzazione di un tal programma diviene quasi impossibile»[21]. Eppure, negli ultimi vent’anni, sono stati pubblicati otto libri di Benamozegh: Israele e l’umanità. Studio sul problema della religione universale (Marietti 1990); Morale ebraica e morale cristiana (Marietti 1997);  Israele e Umanità. Il mio Credo (ETS 2002); L’origine dei dogmi cristiani (Marietti 2002); Il Noachismo (Marietti 2006); Storia degli esseni (Marietti 2007); L’immortalità dell’anima (La parola 2008); Shavuot. Cinque conferenze sulla Pentecoste(Belforte 2009). Israele e l’umanità è stato tradotto in inglese (Paulist Press 1995) e in spagnolo (Riopiedras 2003), Morale ebraica e morale cristianaè stato ristampato nell’originale francese (In press 2000) e in traduzione inglese (Kessinger 2008 e Cornell 2009). E’ stata anche ripubblicata l’autobiografia del discepolo noachide di Benamozegh: A. Pallière, Il Santuario sconosciuto. La mia “conversione” all’ebraismo (Marietti 2005).
            Giustificato era il sereno ottimismo con il quale Toaff chiudeva la sua autobiografia: «Tramandare quella tradizione che era caratteristica della scuola in cui mi sono formato sotto la guida di mio padre, il quale a sua volta seguiva la tradizione del grande Benamozegh e di quelli che venivano chiamati nel mondo “Hachmè Livorno”, i saggi rabbini livornesi, è stato ed è lo scopo principale della mia vita. E non mi posso lamentare dei risultati, se mi soffermo a considerare la dottrina e la capacità dei miei allievi e l’affetto che mi dimostrano, cercando di collaborare con me con generoso slancio e filiale affetto»[22].
            4. E’ un pomeriggio freddo e umido del gennaio 2010. Un piccolo corteo si avvicina al portone di via Catalana dove un uomo anziano con un cappello nero, un cappotto nero, un talled sulle spalle è in piedi in attesa. Anche questa volta la prima persona a incontrare il Papa è lui, ora Rabbino Capo Emerito di Roma.
            Benedetto XVI gli stringe le mani dicendo: «Sono lieto di incontrare colui che ricevette il mio amato predecessore». La Sinagoga è illuminata, gli invitati seguono su due grandi schermi, non riescono a frenare l’applauso.
            Il corteo si congeda e si dirige verso il Tempio dove sta per avere inizio la cerimonia. Rav Toaff  prima di rientrare in casa si volge ancora una volta a guardare e, con occhi lucidi, mormora: «Bene, bene così… ».
            5. La sera di domenica 19 aprile 2015, il 30 nissan 5775, undici giorni prima del suo 100° compleanno, Rav Elio Toaff lascia questo mondo. Molti si raccolgono in preghiera nel Tempio maggiore appena la notizia si diffonde, altri giungono al mattino per un ultimo saluto prima che le spoglie mortali di colui che è stato per 50 anni Rabbino Capo di Roma raggiungano l’amata Livorno.
Marco Cassuto Morselli 
Presidende Amicizia Ebraico-Cristiana di Roma 


[1] E. Toaff, Perfidi giudei, fratelli maggiori, Mondadori, Milano 1987, p. 3.
[2] M. Morselli, I passi del Messia. Per una teologia ebraica del cristianesimo, Marietti, Genova-Milano 2007, pp. 11-12.
[3] A. S. Toaff, Il Collegio rabbinico di Livorno, in «Annuario di studi ebraici», IX, 1977-79, pp. 119-120.
[4] ivi, pp. 120-121.
[5] Nel cinquantenario della sua scomparsa è stato ricordato nella «Rassegna Mensile d’Israel» XXXIX, 1973, con articoli e testimonianze.
[6] E. Toaff, Perfidi giudei, fratelli maggiori, cit., p. 78.
[7] E. Toaff – A. Elkann, Essere ebreo, Bompiani, Milano 1994, p. 20.
[8] E. Toaff – A. Elkann, Il Messia e gli ebrei, Bompiani, Milano 1998, p. 88.
[9] E. Toaff, Perfidi giudei, fratelli maggiori, cit., p. 156.
[10] ivi, p. 168.
[11]ivi, p. 213.
[12] ivi, p. 214.
[13] ivi, p. 159.
[14] ivi, p. 219.
[15] ivi, p. 220.
[16] ivi, p. 228.
[17] ivi, p. 233.
[18] ivi, pp. 238-239.
[19] ibidem.
[20] ivi, p. 241.
[21] E. Toaff, Il pensiero di Elia Benamozegh rivive in Yoseph Colombo, in «Rassegna Mensile d’Israel», LI, 1985, p. 241.
[22] E. Toaff, Perfidi giudei, fratelli maggiori, cit., p. 248.
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Amicizia Ebraico-Cristiana di Roma

Amicizia Ebraico-Cristiana di Roma

L’Amicizia Ebraico-Cristiana di Roma


invita agli incontri con cui l’Associazione inaugura il proprio 
programma 2014-2015


Domenica 26 ottobre 2014 ore 18

Domenica 23 novembre 2014 ore 18

incontro dedicato a Sukkot: la festa delle Capanne

Relatori: Ignazio Genovese e Gabriele Mallel

Per entrambe le conferenze saremo ospiti della Sala Metodista, via Firenze, 38

Segnaliamo inoltre l’importante appuntamento del 
Colloquio Ebraico-Cristiano di Camaldoli 
4-8 dicembre 2014 
dedicato a “Gesù, l’ebreo”.




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ACQUE di VITA

ACQUE di VITA

Tevilah e battesimo 

di Marco Cassuto Morselli e Gabriella Maestri  

1. L’immersione nelle acque del miqweh avviene nell’ebraismo per la purificazione dai peccati e per l’ingresso nella Comunità dei proseliti. Così scrive Rav Elia Benamozegh: «Nell’ebraismo, il proselita è un figlio neonato; la vita non si trova che nella Torah e nella verità. Il peccatore è un malato, la teshuvah è la sua medicina» .

Le acque occupano un ruolo di grande importanza a partire dalle prime parole del Genesi, là dove si afferma che «lo spirito di D. aleggiava sulle acque». Le acque del diluvio universale segnano, attraverso il racconto delle vicende di Noè, l’avvento di una umanità nuova con la quale Ha-Shem conclude il Suo primo patto, avente valore universale. Le tappe fondamentali della storia del popolo ebraico sono segnate dalla presenza delle acque: basti pensare a quelle del Mar Rosso, morte per gli oppressori e vita per i figli d’Israele, o a quelle del Giordano, nel momento in cui, dopo essersi purificati, per la prima volta gli Israeliti al seguito di Yehoshua/Giosuè entrarono con l’Aron ha-Berit, l’Arca dell’Alleanza in Erez Israel. Ancora nei Salmi e soprattutto nei Profeti troviamo spesso citate le acque in un caleidoscopio di valenze che rimandano tanto alla morte che alla vita, alla purificazione del corpo e alla cancellazione dei peccati, oltre che all’avvento escatologico.

Secondo una bella definizione di Rav Benamozegh, «le acque furono sempre un simbolo, un’immagine veneratissima in bocca ai profeti, simbolo d’ispirazione quando alludono alla futura effusione dello spirito, simbolo di beatitudine quando D è presentato quale sorgente perenne di acqua viva». Così leggiamo in Ezechiele: «Io vi prenderò tra i popoli, vi raccoglierò da tutti i paesi e vi condurrò al vostro paese. Poi verserò sopra di voi acque pure e diventerete puri. Io vi purificherò da tutte le vostre impurità e da tutti i vostri atti d’idolatria e vi darò un cuore nuovo, metterò in voi uno spirito nuovo, toglierò dal vostro corpo il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne, metterò in voi il Mio spirito e farò in modo che seguiate i miei statuti e teniate presenti ed eseguiate le mie leggi» . Più avanti abbiamo la descrizione delle acque risanatrici che escono dal Bet ha-Miqdash e fluiscono verso il deserto di Giuda e il Mar Morto: sono piene di pesci e lungo le rive crescono molti alberi, i cui frutti sono nutrimento e le cui foglie sono medicamenti . Così Zaccaria parla del giorno di Ha-Shem: «In quel giorno usciranno acque vive da Yerushalayim: metà verso il mare d’oriente e metà verso il mare d’occidente, ci saranno d’estate e d’inverno. Ha-Shem sarà Re su tutta la terra. In quel giorno Ha-Shem sarà Ehad, Uno, e il Suo Nome sarà Uno».

In tutto il periodo del Secondo Tempio le acque continuarono a mantenere un’importanza fondamentale nella spiritualità e nella liturgia d’Israele. La festa di Sukkot, ossia dei Tabernacoli, con le preghiere per avere acqua abbondante e con il rito della liberazione delle acque nel Tempio, in modo del tutto particolare metteva l’accento sulla loro valenza soterica delle acque, tanto che successivamente il Talmud, facendo riferimento al versetto di Isaia «attingerete acqua con esultanza dalle fonti della salvezza» cantato in quel contesto festivo, la definiva festa della Shoavah perché in essa veniva attinto lo Spirito Santo, detto Shoavim.

L’enfasi sulla tevilah era straordinariamente accentuata a Qumran, come è possibile vedere in numerosi frammenti di testi rinvenuti nelle grotte e nel grande numero di mikwaot presenti tra le rovine del sito. Flavio Giuseppe racconta che gli esseni si immergevano quotidianamente nelle acque di purificazione: «dopo aver lavorato con impegno fino all’ora quinta, di nuovo si riuniscono insieme e, cintisi i fianchi di una fascia di lino, bagnano il corpo in acqua fredda e dopo questa purificazione entrano in un locale riservato dove non è consentito entrare a nessuno di diversa fede, ed essi in stato di purezza si accostano alla mensa come a un luogo sacro». Occorre inoltre tenere presente che molte fonti e sorgenti della zona avevano proprietà terapeutiche e risanatrici, e vi era un’importante produzione di farmaci, balsami, profumi a base di piante, radici e minerali. Anche ai nostri giorni vi è un’importante attività di healing intorno al Mar Morto.

Già nella Settanta il termine ebraico tevilàh viene tradotto in greco con baptìsma. Si veda ad esempio l’episodio del generale siriano Naaman che si reca presso il profeta Eliseo per ottenere la guarigione. Il profeta lo esorta a immergersi nelle acque del Giordano. Il termine yitbòl, si immerse, viene tradotto in greco con ebaptìsato. La conseguenza di tale immersione non è solo la guarigione del corpo, ma una vera e propria conversione al D. d’Israele: «Allora scese al Giordano, vi si immerse sette volte secondo la parola dell’uomo di D., e il suo corpo diventò come il corpo di un piccolo fanciullo ed egli divenne puro. Tornato poi all’uomo di D. con tutto il suo seguito, si fermò davanti a lui e disse: “Ora io so che in nessun paese vi è un D. se non in Israele”».

2. Le acque sono molto presenti anche negli scritti del Nuovo Testamento, tutti profondamente immersi nella cultura e nella spiritualità dell’ebraismo. Lo stesso paesaggio evangelico è spesso caratterizzato dalla presenza delle acque: in particolare quelle del Giordano e del lago di Tiberiade, ove Yeshua/Gesù, amava insegnare.

Quando nel Nuovo Testamento per la prima volta leggiamo del battesimo è a proposito di Yohannan/Giovanni, cugino di Yeshua, il quale praticava un battesimo di teshuvàh per la remissione dei peccati e le folle si accalcavano sulle rive del Giordano, sentendo imminente l’arrivo della Malkhùt ha-Shammàyim, ossia del Regno dei Cieli.

Nel Vangelo di Matteo il capitolo 3 presenta Yeshua che si reca da Yohannan per farsi battezzare: «Appena fu battezzato, Gesù usci dall’acqua: ed ecco, si aprirono i cieli ed egli vide lo Spirito di D. scendere come una colomba e venire su di lui. Ed ecco una voce dal cielo che disse: “Questi è il Figlio mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto”» (Mt 3,16-17). Soprattutto nel Vangelo di Giovanni troviamo un’attenzione particolare per le acque. Alla domanda di Nicodemo: «Come può un uomo nascere quando è vecchio? Può forse entrare una seconda volta nel grembo di sua madre e rinascere?» Yeshua rispose: «In verità, in verità ti dico: se uno non è nato dall’acqua e dallo Spirito, non può entrare nel Regno di D.» (Gv 3,4-5). Nel capitolo 4 dello stesso Vangelo viene descritto l’incontro di Yeshua con la Samaritana, nel capitolo 5 la guarigione del paralitico presso la piscina di Betesda. Nel capitolo 7, ambientato nell’ultimo giorno della festa di Sukkot, Yeshua proclama ad alta voce: «Se qualcuno ha sete, venga a me e beva. Colui che crede in me, come dice la Scrittura, “dal suo ventre sgorgheranno fiumi di acque vive”» (Gv 7,37-38).

Il fiume di acque vive che sgorga dal Trono di Ha-Shem e dell’Agnello compare anche nell’ultimo capitolo del Giluy/Apocalisse: «Mi mostrò poi un fiume di acque vive, limpido come il cristallo, che scaturiva dal Trono di Ha-Shem e dell’Agnello. Fra la piazza e il fiume, di qua e di là, vi sono alberi di vita, che portano frutti dodici volte, una volta al mese, con foglie che hanno virtù medicinali per la guarigione dei popoli» .

Shaùl/Paolo, al quale si devono i testi più antichi del Nuovo Testamento, introduce una nozione di battesimo diversa da quella di Yohannan. Secondo il racconto degli Atti degli Apostoli, egli a Corinto, incontrati alcuni discepoli, chiese loro: «“Avete ricevuto lo Spirito Santo quando siete venuti alla fede?”. Gli risposero: “Non abbiamo nemmeno sentito dire che esista uno Spirito Santo”. Ed egli disse: “Quale battesimo avete ricevuto?”. “Il battesimo di Yohannan” risposero. Disse allora Shaul: “Yohannan battezzò con un battesimo di teshuvah, dicendo al popolo di credere in colui che sarebbe venuto dopo di lui, cioè in Yeshua”. Udito questo, si fecero battezzare nel nome dell’Adòn Yeshua e non appena Shaul ebbe imposto loro le mani, discese su di loro lo Spirito Santo e si misero a parlare in lingue e a profetare”» (At 19,1-6).

Varie volte nelle sue lettere Shaul scrive del battesimo. In particolare nella Lettera ai Romani egli si esprime in questi termini: «Non sapete che quanti siamo stati battezzati in Yeshua siamo stati battezzati nella sua morte? Per mezzo del battesimo dunque siamo stati sepolti insieme a lui nella morte, affinché come il Messia fu resuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova» (Rm 6,3-4).

Tale connessione tra battesimo e morte/resurrezione del Messia è una novità introdotta da Shaul che non si riscontra più nei testi antichi della Patristica fino al IV secolo, quando riappare nelle Catechesi di Cirillo di Gerusalemme . Infatti i più antichi testi cristiani, a partire dalla Didachè, non operano tale collegamento ma insistono piuttosto sul valore del battesimo in relazione all’ingresso nella Comunità ecclesiale dei catecumeni, a quel tempo in gran parte adulti, e alla remissione dei peccati.

Nella Didachè, composta verso la fine del I secolo, a proposito del battesimo leggiamo: «Riguardo alla Tevilah, battezzate così: dopo aver esposto tutti questi precetti, battezzate in acqua viva nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. 2. Se non hai acqua viva, battezza in altra acqua: se non puoi in fredda, in calda. 3. Se non ne hai né dell’una né dell’altra, versa sul capo tre volte acqua nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. 4. Prima del battesimo il battezzante e il battezzando digiunino e, se può, lo faccia anche qualcun altro. Ordinerai che il battezzando digiuni per un giorno o due».

Originariamente si veniva immersi nel Nome (Ha-Shem), in un secondo momento, passando alla lingua greca e allontanandosi dalle origini, si è sentito il bisogno di aggiungere: “nel nome di Gesù” o nel “nome della Trinità”. Si tenga tuttavia presente che secondo l’interpretazione cabbalistica della Dogmatica cristiana proposta da Benamozegh, Abba (Padre) è la Sefirah Hokhmah, Ben (Figlio) è Tiferet, Ruah (Spirito, che in ebraico è femminile) è o Binah o (come in questo caso sembra più probabile) Malkhut.

A partire dal II secolo, dopo le catastrofi della Prima e Seconda Guerra Giudaica, il cristianesimo tende sempre di più a rendersi indipendente dalle sue radici ebraiche, si rivolge quasi esclusivamente ai Gentili e accentua le sue polemiche antigiudaiche, elaborando gradualmente una vera e propria teologia della sostituzione alla quale si accompagna una liturgia della sostituzione.

Così si legge ne La tradizione apostolica di Ippolito di Roma, un’opera, composta intorno al 215, importantissima nella storia della liturgia perché, dopo la Didachè, è la più antica delle Costituzioni della Chiesa giunte fino a noi: «Al canto del gallo per prima cosa si preghi sull’acqua. Sia acqua che scorra in una fonte o che fluisca dall’alto. Avvenga così, a meno che non ci sia qualche necessità. Se c’è una necessità permanente ed urgente, si usi l’acqua che si trova. [Coloro che devono ricevere il battesimo] si spoglino. Battezzate per primi i bambini. Tutti quelli che sono in grado di rispondere da sé, rispondano; per quelli che non sono in grado, rispondano i genitori o qualcuno della famiglia. Battezzate poi gli uomini ed infine le donne, le quali avranno disciolto i capelli e deposto i loro gioielli d’oro e d’argento: nessuno discenda nell’acqua con indosso qualcosa di estraneo».

Il De Baptismo di Tertulliano, una delle più antiche opere che affrontano in modo sistematico il problema della prassi battesimale della Chiesa, è stato scritto all’inizio del III sec. in Africa: «Non c’è nulla che lasci così perplessa la mente umana come la semplicità delle opere di Dio; esse paiono effettivamente semplici ma contengono in realtà delle promesse ed una efficacia strepitose. Così accade nel battesimo. Nella semplicità più completa, senza scene spettacolari, senza montature fuori dell’ordinario e a volte addirittura senza alcuna spesa particolare ci si trova immersi nell’acqua e si viene battezzati mentre si sono pronunciate ben poche parole; dall’acqua infine si risorge forse un po’ più puliti o anche solo puliti come prima; ecco il motivo per cui pare incredibile che si possa in questo modo ottenere l’eternità».

Cirillo di Gerusalemme, nato verso il 315 e morto probabilmente nel 387, è stato vescovo di Gerusalemme e ha lasciato nelle sue Catechesi una preziosa testimonianza sull’iniziazione cristiana nel corso del IV secolo. Nella III Catechesi prebattesimale troviamo un elogio dell’acqua: «Se qualcuno desidera sapere per quale motivo attraverso l’acqua e non attraverso un altro elemento è data la grazia, lo troverà prendendo le divine Scritture. L’acqua infatti è qualcosa di grande e il più bello dei quattro elementi visibili del mondo. Dimora degli angeli è il cielo, ma i cieli derivano dalle acque. La terra è sede degli uomini, ma la terra deriva dalle acque. E prima che fossero formate tutte le creature durante sei giorni, “lo Spirito di Dio aleggiava sulle acque”. Principio del mondo è l’acqua e principio del Vangelo è il Giordano. La liberazione dal Faraone avvenne per Israele attraverso il mare e la liberazione dai peccati avviene per il mondo attraverso il lavacro dell’acqua, nella parola di Dio. Ovunque c’è un’alleanza con qualcuno, là c’è anche l’acqua. Dopo il diluvio fu concluso un patto con Noè. L’alleanza con Israele ha avuto origine dal monte Sinai, ma attraverso acqua, lana scarlatta ed issopo. Elia viene rapito in cielo, ma non senza acqua: prima infatti attraversa il Giordano, poi è trascinato dai cavalli verso il cielo. Prima il sommo sacerdote si purifica, poi brucia profumi: prima infatti Aronne si purificò, poi divenne sommo sacerdote. Come avrebbe potuto pregare infatti per gli altri, se non fosse prima stato purificato attraverso l’acqua? E simbolo del battesimo era la vasca che si trovava all’interno del Tabernacolo».

Nei Sermoni Liturgici di Cromazio di Aquileia, importante vescovo della città, vissuto nella seconda metà del IV sec. e morto nel 407, leggiamo: «L’acqua della piscina di Betsaida curava una volta sola all’anno, mentre la grazia del battesimo della chiesa scorre ogni giorno, ogni giorno cresce, ogni giorno straripa, attraverso i regni e le nazioni, e attraverso i numerosi popoli che godono del suo dono» (14,3).

In quest’altro brano, tratto dal Sermone 34 sull’Epifania, si nota chiaramente una liturgia di sostituzione: «Il nostro Signore, essendo venuto per dare un nuovo battesimo per la salvezza del genere umano e per la remissione di tutti i peccati, prima si è degnato di sottoporsi al battesimo, non tanto per liberare sé stesso dai peccati, poiché non aveva commesso alcun peccato, bensì per santificare le acque del battesimo, affinché cancellasse i peccati di tutti i credenti che erano nati di nuovo mediante il battesimo di rigenerazione […] Ascolta quanto dice l’apostolo: “Quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo”. E aggiunge: “Per mezzo del battesimo siete stati sepolti in lui nella morte, affinché come Cristo è stato risuscitato da morte, così anche voi camminiate in novità di vita”. Mediante il battesimo moriamo al peccato, però viviamo con Cristo; veniamo sepolti alla vita antica, però risorgiamo a vita nuova; ci spogliamo dell’uomo vecchio, però indossiamo l’abito dell’uomo nuovo […] Giovanni ha battezzato il nostro Signore e Salvatore, però è stato battezzato anche lui da Cristo, perché questi ha santificato le acque, e da queste acque quello è stato santificato […] Un tempo la grazia del battesimo è stata enunciata misticamente: appunto quando il popolo, guadando il Giordano, è stato introdotto nella terra promessa».

La riflessione di Agostino sul peccato originale si rifletté profondamente sul suo modo di concepire il battesimo. Tale sacramento venne sempre più ritenuto l’unico mezzo per cancellare la colpa derivante dal peccato di Adamo ed Eva e per introdurre alla salvezza. L’idea dell’extra Ecclesiam nulla salus sempre più caratterizzò la speculazione teologica dei secoli successivi, per cui coloro che non erano battezzati venivano ritenuti drasticamente esclusi dalla redenzione. La pratica sempre più diffusa di amministrare il battesimo ai bambini anziché agli adulti fece alquanto sbiadire l’antica idea della cancellazione dei peccati e dell’ingresso nella Comunità ecclesiale, insistendo piuttosto sulle drammatiche conseguenze del peccato originale, senza la cui cancellazione persino i neonati erano esclusi dal Paradiso e confinati nel Limbo.

3. La concezione che abbiamo appena delineato è rimasta fondamentalmente invariata fino alla seconda metà del XX secolo, quando i nuovi fermenti teologici derivati dal Concilio Vaticano II hanno aperto nuovi orizzonti di riflessione. L’ecumenismo, il dialogo ebraico-cristiano e il dialogo interreligioso hanno portato all’abbandono o all’emarginazione della teoria dell’extra Ecclesiam nulla salus.

E’ emersa nelle Chiese la consapevolezza che la “Prima Alleanza” non è stata revocata e che Israele è il «popolo, in virtù dell’elezione, carissimo per ragione di suoi padri, perché i doni e la vocazione di Dio sono irrevocabili» . Così commenta Padre Adolfo Lippi: «C’è oggi, in tutta la teologia cristiana, un notevole sforzo per accogliere questa verità. Non si tratta, come è evidente, di correggere qualche paragrafo secondario dell’ecclesiologia: si richiede una vera rifondazione della teologia, compito non semplice né facile, anche perché suppone una trasformazione mentale molto profonda».

Una trasformazione mentale molto profonda è richiesta anche da parte ebraica per confrontarsi con i mutamenti che stanno avvenendo nella Cristianità. Milioni e miliardi di goyim sono entrati nel mondo della Torah e sono rinati a nuova vita grazie alle acque della tevilah. La teshuvah e il tiqqun permettono forse di riconoscere che le acque vive che per venti secoli hanno attraversato i regni e le nazioni hanno la loro fonte in Ha-Shem, e sta per compiersi la parola del profeta Geremia: «a Te verranno le nazioni dall’estremità della terra» .

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Shavuot/Pentecoste

Shavuot/Pentecoste

Benamozegh:Cinque conferenze sulla Pentecoste ebraica

Gabriella Maestri

di Gabriella Maestri

Al pubblico dei lettori che già conosce ed apprezza gli scritti di Elia Benamozegh sarà molto gradita la recente uscita, nella Collana di studi ebraici della Casa editrice Belforte di Livorno, di un volume, a cura di Marco Morselli, che raccoglie cinque conferenze del grande rabbino livornese sul tema della Pentecoste ebraica, la festa di Shavuot, date alle stampe per la prima volta nel lontano 1886, successivamente per più di un secolo cadute nell’oblio ed ora finalmente oggetto di una nuova pubblicazione.

E’ significativo osservare come, in questi ultimi anni, molte opere di Benamozegh abbiano visto nuovamente la luce: basterebbe ricordare, fra le più importanti, Israele e l’umanità, Morale ebraica e morale cristiana, L’origine dei dogmi cristiani, Storia degli Esseni, L’immortalità dell’anima, tutte ancora valide oggi e capaci di interessare e di stimolare i lettori non solo per la ricchezza del loro contenuto, ma anche per la capacità di esporre i molteplici e complessi aspetti della cultura e della spiritualità dell’ebraismo in modo chiaro e scorrevole, mostrandone tutta la bellezza e l’influenza sulla formazione della nostra civiltà occidentale.
Benamozegh – ricordiamolo per chi gli si accostasse per la prima volta – pur essendo di origine marocchina, visse in Italia, a Livorno, nel corso del XIX sec., partecipando con passione ed entusiasmo alle complesse vicende storiche dell’epoca, fiero delle sue radici ebraiche ma anche della sua italianità, convinto di poter contribuire, con il suo personale impegno culturale, religioso e civile, alla costruzione di una società più giusta, in cui i valori delle tre grandi religioni monoteiste, in particolare dell’ebraismo e del cristianesimo, non si sarebbero più contrapposti, ma sarebbero entrati in una fase di dialogo fecondo: per questo egli può essere considerato un vero e proprio precursore del dialogo interreligioso.

Nella parte introduttiva dell’opera, Marco Morselli sottolinea come l’intento di Benamozegh fosse di esporre la parte non scritta, ma tradizionale della storia della Rivelazione sinaitica, con la sua «pleiade bella, edificante, graziosa, di fatti minori, di eloquentissimi particolari». L’attenzione all’universalità della Rivelazione è infatti costante in tutti gli scritti del Maestro: il matan Torah, cioè il dono della Torah, è rivolto non solo a Israele ma a tutta l’umanità, che un giorno sarà capace di accoglierlo e di rigenerarsi in esso. L’ebraismo ha saputo custodire gelosamente e amorosamente questo dono, al tempo stesso però non abbandonando mai la sua prerogativa di farsi tutto a tutti, «di farsi come Elia piccino coi piccini per dar loro la vita, di esser latte pei bimbi, miele per giovani, vino per i vecchi… di avere un linguaggio per il popolo, un altro per i dotti… assumendo forme senza limite e senza fine quante sono le generazioni e gli individui che si succedono, sempre permanendo uno, sempre lo stesso, come l’acqua piovana che scende dal cielo… che diventa vino nelle viti, olio nelle ulive».

Benamozegh possiede una grande fede nel miglioramento dell’umanità, nella sua capacità di poter progressivamente sempre più comprendere, percepire non solo con gli occhi, ma anche col cuore, la bontà di quel messaggio divino, di quella Legge assolutamente perfetta proclamata con forza sul Sinai, di cui neppure lo stesso Mosè poteva ancora cogliere totalmente la luce e la grandezza. Significativo è a questo proposito il racconto del Talmud che mostra il Profeta, ormai salito in cielo, intento ad ascoltare Rabbi Aqiva che spiegava a numerosi discepoli la Legge di Dio, insegnando loro cose che Mosè stesso non conosceva né comprendeva. All’improvviso uno dei discepoli chiese ad Aqiva dove avesse imparato tutto quello che stava spiegando. La risposta del Rabbi : «Halakhah le-Mosheh mi-Sinai», cioè «E’ dottrina data a Mosè dal Sinai» rende bene quanto sia forte la convinzione, presente in Benamozegh e profondamente radicata nell’ebraismo, di quel progresso cui sopra abbiamo accennato. Il suono dello shofar, continuo e sempre crescente, che aveva accompagnato il prodigioso evento sul monte, indicava infatti, secondo il nostro Autore, non solo la perpetuità della Legge, ma anche «uno sviluppo sempre maggiore non già in Lei, che è sempre la stessa e sempre assoluta, ma negli uomini che la posseggono, nella sua intelligenza, nella sua pratica, nella sua diffusione». Tale suono inoltre era suono del nuovo Regno di Dio, suono di convocazione e di consacrazione del popolo sacerdote, perché «come la chioccia chiama i suoi pulcini, così la madre pietosa, la Shekhinah, convocava sotto le sue ali amorose ai piedi del Sinai i piccoletti figli».

Nel giorno in cui era stata data la Legge, erano presenti in spirito presso il Sinai , secondo il Midrash Rabbah, non solo tutti i Profeti, ma anche, come sostengono i Dottori, tutte le anime presenti e future d’Israele e tutte le schiere degli Angeli: la terra tremò per ricordare a tutti che nulla è stabile quaggiù tranne Dio sempiterno, una fragranza celeste si diffuse ovunque, profondo fu il silenzio di tutto l’universo, espressione di una grande attesa. Proprio dalla Tradizione, come sottolinea Benamozegh sin dalla sua prima conferenza, veniamo a conoscere quei tanti aspetti della rivelazione del Sinai che non sono narrati nel testo biblico; è inoltre sempre la Tradizione che ci insegna a distinguere nei dieci comandamenti, definiti come “il discorso della corona”, i primi due che furono promulgati direttamente dalla divina onnipotenza dagli altri otto mediati dalla voce di Mosè. L’eterna verità si esprimeva sul Sinai in cento modi bellissimi, modulandosi e proporzionandosi secondo le forze fisiche e morali di ognuno, rivelandosi, come dicono i Dottori del Talmud, in settanta lingue diverse, cioè in tutte le lingue, perché tutti la comprendessero.

Ma a chi la Rivelazione era rivolta? Secondo i testi scritturistici, solo agli uomini in modo diretto, mentre per la Tradizione, che interpreta in modo del tutto particolare le parole della Scrittura: «Parla prima alla casa di Giacobbe e poi ai figli d’Israele», essa in primo luogo era stata data alle donne, definite come “casa di Giacobbe”, in quanto le donne sono generalmente più disposte ai pensieri e alle opere della religione e si occupano dell’educazione della prole. Inoltre, aggiunge Benamozegh con quell’accento scherzoso che spesso troviamo nelle sue conferenze, «perché vedendo Iddio la mala prova che aveva fatto nella creazione il comandare prima all’uomo, trascurando la donna, volle nella Rivelazione cambiare registro per vedere se meglio così avrebbe riscosso la comune obbedienza».

Ancora dalla Tradizione possiamo ricavare la data in cui fu data la Legge, il 6 o il 7 di Siwan, dal momento che la Scrittura non lo dice esplicitamente, pur facendocelo capire. Il tempo primaverile dell’evento, secondo Benamozegh, vuole significare che la religione non deve essere triste, gretta, misantropa, incapace di associare l’amore del bello, della natura, della poesia, all’ossequio dei precetti del Sinai.

Nei testi biblici la festa di Pentecoste era considerata soltanto una festa campestre, collegata alla raccolta del grano, dalla quale però i Dottori avevano tratto spunto per sottolinearne non più semplicemente il carattere agronomico e civile, ma morale e legislativo. Il Decalogo infatti era stato donato al popolo d’Israele affinché fosse da lui interpretato e trasmesso di generazione in generazione fino ai giorni nostri. La Rivelazione era stata così affidata al popolo, che però non doveva ritenere di esserne l’esclusivo possessore: «Guai se Israele si credesse il popolo eletto nel senso odioso della parola, o per dir meglio, il popolo privilegiato. La sua elezione è un ministero, una servitù, una missione, un beneficio a vantaggio dell’universale… Israele sarà un popolo di sacerdoti che officia per il genere umano nel suo santuario, la Palestina». La regola sacerdotale è la Legge mosaica, quella comune è costituita dai precetti noachidi.

Dal Sinai dunque scaturirono tutte le parti della Legge di Dio, tutti i precetti, anche i minimi. Benamozegh pensa che il loro numero sia molto antico, costituito molto prima dell’era rabbinica. Tutto infatti era stato già scritto in forma sintetica in quelle due tavole di pietra, da cui poi i Dottori ricavarono i 613 precetti, cuore pulsante dell’Ebraismo. Se la religione ebraica fosse stata opera di uomo, costui avrebbe cercato di facilitarne l’osservanza per attirare proseliti, Mosè invece fece esattamente tutto l’opposto, prova questa che il durissimo giogo della legge mosaica fu voluto dalla divinità. In particolare nella sua terza conferenza Benamozegh si sofferma a spiegare le valenze del numero 613, sottolineando che fra tutti i precetti 248 sono positivi e 365 negativi. L’antica anatomia riteneva che appunto 248 fossero le parti che compongono il corpo umano, mentre 365 sono i giorni dell’anno solare. Da tutto ciò si deduce, secondo la sua interpretazione, che l’uomo e il mondo, il microcosmo e il macrocosmo, sono retti da una Legge unica, creatrice e conservatrice dell’intero universo. L’uomo che liberamente sceglie di osservare tutti i precetti, o almeno ha il desiderio di farlo pur non avendone la possibilità, può salvarsi anche se ne ha rispettato uno soltanto, afferma il nostro Autore, basandosi su una consolidata tradizione espressa da famosi Dottori.

La legge di Dio inoltre, come sarà immutabile nell’avvenire, così lo è stata anche per il passato. Benamozegh dedica molto spazio a tale affermazione proponendosi di dimostrare la preesistenza del mosaismo allo stesso Mosè con parole appassionate e piene di poesia: «Una verità… si faceva sempre e sempre più sfolgorante nell’animo mio, che la Rivelazione del Sinai non fu una pianta esotica, una novità, un fatto isolato senza precedenti… ebbe un’aurora come ebbe un crepuscolo… Mosè è un sole che sorge con i Patriarchi, tocca il meriggio sul Sinai, scende, declina, tramonta coi Profeti e coi Dottori. Egli sta in mezzo fra le due Tradizioni, l’una sua madre, l’altra sua figlia: una che lo precede, l’altra che lo segue». Si potrebbe ritenere la Rivelazione nata con Adamo quando si legge nel Genesi che «il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel Gan Eden perché lo lavorasse e lo custodisse» (Gn 2,15). Le parole “lo lavorasse” alluderebbero alle miswot positive, mentre a quelle negative farebbe riferimento l’espressione “lo custodisse”. Benamozegh insiste molto sul fatto che tutte la dottrine dell’ebraismo, tutti i suoi “dogmi” sono anteriori a Mosè non solo nei loro aspetti principali, ma anche nei minimi, e presenta per avvalorare la sua tesi una ricca serie di citazioni bibliche. In tal modo egli dimostra come l’esistenza e l’unità di Dio, la sua provvidenza, la creazione del mondo, la Rivelazione, la spiritualità dell’anima, le sue sorti oltremondane, l’esistenza degli Angeli, la necessità del culto e le sue modalità, la fede nella resurrezione, il simbolismo numerico, la benedizione e la santificazione del Sabato, le feste, i sacrifici, tutte le leggi religiose e civili trovino profonda radice nei tempi più antichi per essere poi amorosamente trasmessi di generazione in generazione e per essere osservati anche in avvenire: «Il Sinai non è un punto di partenza né un punto di arrivo… ma una tappa, una gran tappa di una religione nata con il mondo e che col mondo finirà, una stazione fra due paradisi … un mezzogiorno fra due crepuscoli, l’aurora e il tramonto».

Nella parte finale del libro, in particolare nell’ultima conferenza, Benamozegh difende la Rivelazione mosaica dall’accusa di essere un privilegio concesso a un solo popolo a scapito di tutti gli altri, sottolineando con fervore che il Dio d’Israele è anche il Dio di tutti gli altri popoli. Tornando a spiegare ancora una volta il “privilegio” dell’elezione, si ribadisce che essa è innanzitutto una vocazione speciale a servizio di tutta l’umanità: Israele ha infatti il ruolo di mediatore tra la terra e il cielo, tra l’uomo e Dio. Gli Ebrei sono un mezzo dunque e mai un fine, fine che non risiede soltanto nel sacerdozio di Israele: tutto il genere umano infatti sarà benedetto in Israele e attraverso Israele.

Ma la Parola del Signore si presenta in tanti modi anche ai Gentili, arrivando ad essi per mezzo della Rivelazione primitiva concessa ai Patriarchi, attraverso la legge naturale contenuta nel Pentateuco e comune a tutti i figli di Adamo e soprattutto attraverso la voce dei Profeti inviati da Dio come vindici del diritto, dell’innocenza, della giustizia non solo interna, ma di tutte le nazioni. L’umanità forma, spiega Benamozegh, una sola famiglia di cui Dio è il Padre supremo e Israele il figlio primogenito, in quanto fu unico fra tutti i popoli a riconoscere sin dai tempi più antichi il Dio unico e a praticare la sua Legge nell’attesa di tempi più propizi in cui tutto il mondo fosse maturo per riceverla.

Per questo l’ebraismo è duplice: «Egli ha due leggi, due religioni, due regole, due discipline, la noachide… e la mosaica; la prima ad uso delle genti, la seconda d’Israele, la prima legge a tutti comune, regola del laicato universale, la seconda regola del sacerdozio… entrambe divine, eterne, necessarie, utilissime leggi, ma la mosaica ordinata e custodita quasi astuccio, fodero o vagina della noachide e quindi implicante obblighi specialissimi, eccezionali».
Particolarmente significative sono infine le parole con le quali si conclude il libro e che testimoniano il calore e la passione che animavano Benamozegh e che ancora adesso riescono a infondere nel lettore una forte emozione: «L’ebraismo è una meraviglia, un miracolo, un capo d’opera di cosmopolitismo… Una religione siffatta è il più grande dei miracoli… Fermo adunque popolo di Dio nella credenza della sua verità… L’avvenire ti darà ragione come ti ha dato finora e l’Umanità che travagliasi nella ricerca di una religione ti renderà grazie di avergliela serbata incolume contro tutte le seduzioni e contro tutti i pericoli».

Certamente una visione così ottimista dell’avvenire non avrebbe mai potuto immaginare la tragedia che si sarebbe abbattuta sul popolo ebraico nel corso del Novecento… Eppure forse ancora di più, dopo i drammatici eventi del secolo che da poco si è concluso, la voce di Benamozegh è capace di infondere speranza, capacità di resistenza, attaccamento a quei grandi valori nei quali egli aveva creduto.

Il lettore odierno inoltre può rimanere certamente colpito non solo dal contenuto delle conferenze, ma anche dalla piacevolezza del linguaggio, dalla sua particolare vivacità e coloritura, talvolta da una bonaria ironia che certamente dimostrano come il Maestro riuscisse molto bene a catturare l’attenzione del suo pubblico e che ancora adesso possono renderci più gradevole la lettura.

Dopo più di un secolo le riflessioni di Benamozegh non hanno perduto la loro validità, anzi forse possono essere comprese e condivise meglio oggi di quando sono state esposte per la prima volta, grazie proprio a quel “progresso” delle coscienze in cui il Maestro aveva posto tanto grande fiducia. In tale ottica le cinque conferenze su Shavuot possono offrire un notevole contributo all’approfondimento del significato di una festa molto importante per l’ebraismo, ma possono altresì stimolare una riflessione sulle radici della Pentecoste cristiana raccontata negli Atti degli Apostoli, che a Shavuot strettamente si ricollega (basti pensare, ad esempio, al fragore che si diffonde nel Cenacolo e che ricorda la voce dello shofar, o al miracolo delle lingue che si ricollega alla Rivelazione sinaitica avvenuta in settanta lingue diverse per indicare che era rivolta a tutta l’umanità).

Giudico infine molto importante il contenuto del libro anche come contributo alla rimozione di quel turpe pregiudizio che per secoli – e purtroppo in qualche caso ancora oggi – ha portato e porta ancora a non comprendere correttamente e quindi ad interpretare in modo gravemente distorto il significato dell’elezione di Israele. La consapevolezza della dignità del suo regale sacerdozio esercitato in favore di tutta l’umanità dovrebbe essere presente in chiunque si dichiari amico del suo popolo, contribuendo così alla creazione di legami sempre più profondi di rispetto e di amicizia in vista della costruzione di un futuro migliore per tutta l’umanità.

 

Shavuot/Pentecoste

  Il dono della Torah

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