LE FESTE EBRAICHE

LE FESTE EBRAICHE


Il Sabato

Nella Bibbia troviamo scritto: “E furono compiuti i cieli, la terra e tutte le loro creature. E terminò il Signore nel giorno settimo l’opera Sua e si riposò, il settimo giorno, da tutta l’opera che aveva fatto. E Dio benedisse il settimo giorno e lo santificò, perché in esso cessò (shavàth) tutta l’opera Sua che aveva compiuto” (Bereshìth, Genesi 31).
Il termine Shabbat deriva dalla radice ebraica Shevat, cessare, il sabato ebraico infatti implica la cessazione di qualsiasi attività lavorativa. Tra i numerosi precetti che l’ebraismo prescrive lo Shabbat ha sempre occupato un posto fondamentale nel cuore dell’ebreo osservante. E’ la più importante delle ricorrenze del calendario ebraico e si sussegue di settimana in settimana scandendo il ritmo dell’anno nella vita individuale, famigliare e in quella della comunità.
In questo giorno tutti hanno diritto al riposo: non deve lavorare né il padrone né il servo, né l’uomo, né la donna, non il cittadino né lo straniero, perfino gli animali da lavoro in questo giorno tutti devono essere esentati dal lavoro e hanno diritto al riposo. Lo Shabbat rende ogni uomo uguale all’altro: nessuno può avvalersi dell’opera di un suo simile. Il riposo settimanale è un concetto dato per acquisito nella nostra epoca, ma assolutamente rivoluzionario nei tempi in cui fu proposto. Anche in epoca romana infatti, una delle accuse che venivano mosse agli ebrei riguardava proprio la loro pigrizia di schiavi che si rifiutarono di lavorare di sabato.
L’osservanza dello Shabbat comporta l’esecuzione di due categorie di precetti: quelli positivi, che implicano un’azione da compiere e che rientrano nel precetto “ricorda il giorno del sabato per santificarlo”, (Esodo 20, I dieci comandamenti), e quelli negativi, che impongono l’astensione da una serie di lavori ed opere che rientrano nel precetto “osserva il giorno del sabato per santificarlo”.
I Maestri, forse per sanare l’incongruenza fra i due testi, affermano che “quando furono promulgati i comandamenti riguardanti il sabato, “Ricorda”e “Osserva”furono pronunciate con una sola emissione di voce”, come a dire che lo Shabbat è completo solo se si osservano entrambi i precetti.
I Maestri affermano che sarebbe sufficiente che tutto il popolo ebraico rispettasse due sabati consecutivi perché il Messia facesse la sua apparizione sulla terra. Ma, poiché conoscevano bene le difficoltà connesse con un’osservanza completa dello Shabbat, dicono che più di quanto gli ebrei abbiano osservato il Sabato, il Sabato ha conservato gli ebrei.
Tra i “fini”dell’osservanza dello Shabbat c’è quello di stabilire un limite al dominio dell’uomo sulla natura. In particolare l’osservanza dello Shabbat implica l’astensione da qualsiasi atto “creativo”, da qualsiasi atto che in qualche modo modifichi la natura. E’ questa la motivazione per cui è proibito, ad esempio, accendere il fuoco o utilizzare una macchina, atti entrambi che turberebbero il naturale svolgimento della natura. Lo spirito dello Shabbat però non prevede solo proibizioni, questo giorno deve essere riempito di significato con alcuni azioni, come ad esempio la recitazione del Kiddush (la santificazione della festa attraverso il vino) l’accensione della lampada sabbatica, l’indossare gli abiti migliori e così via.
L’uomo per sei giorni lavora e si dedica soltanto a cose “materiali”, in questo giorno, invece senza l’osssessione dell’attività produttiva deve dedicarsi a se stesso, alla comunità, alla società, per stare con i propri familiari e gli amici, a studiare e riposare. Se durante i giorni lavorativi l’uomo tende a vivere secondo le modalità dell’avere, in un certo senso “l’uomo è solo cio’ che ha”, il Sabato prevale la modalità dell’essere e “l’uomo è ciò che è”.
La costruzione del Santuario viene interpretata dai Maestri come l’atto creativo di maggiore importanza per l’ebraismo. Eppure le melakhot, le azioni che secondo la Torà non possono essere compiute di sabato, vengono dedotte proprio da quelle necessarie ai fini della costruzione. Così perfino la costruzione del Santuario, simbolo della presenza divina in mezzo al popolo, è esplicitamente proibita di sabato; la santità del tempo – il sabato – nella tradizione ebraica è superiore a quella dello spazio, sia pure il più sacro tra gli spazi.
La tavola sabbatica, intorno alla quale si riunisce la famiglia – e gli ospiti che non dovrebbero mai mancare – non risplende solo perché preparata in maniera diversa dagli altri giorni (con una tovaglia pulita, un tovagliolo speciale per coprire le challoth – i pani del Sabato -, il bicchiere contenente il vino che serve per la santificazione, le candele del Sabato, i cibi prelibati, diversi da quelli che vengono messi a tavola nei giorni feriali), ma anche perché lo spirito che pervade questa giornata dovrebbe riempire l’uomo di una spiritualità sufficiente per l’intera settimana. 

 

Il Capodanno

Rosh Ha-Shanà cade i primi due giorni del mese di Tishrì ed è il capo d’anno per la numerazione degli anni, per il computo dei giubilei e per la validità dei documenti. Ha un carattere e un’atmosfera assai diversi da quella normalmente vigente nel capo d’anno “civile” in Italia. Infatti è considerato giorno di riflessione, di introspezione, di auto esame e di rinnovamento spirituale. E’ il giorno in cui, secondo la tradizione, il Signore esamina tutti gli uomini e tiene conto delle azioni buone o malvagie che hanno compiuto nel corso dell’anno precedente. Nel Talmud infatti è scritto “A Rosh Ha-Shanà tutte le creature sono esaminate davanti al Signore”. Non a caso tale giorno nella tradizione ebraica è chiamato anche “Yom Ha Din”, il giorno del giudizio. Il giudizio divino verrà sigillato nel giorno di Kippur, il giorno dell’espiazione. Tra queste due date corrono sette giorni che sommati ai due di Rosh Ha-Shanà e a quello di Kippur vengono detti i “dieci giorni penitenziali”.
Rosh Ha-Shanà riguarda il singolo individuo, il rapporto che ha con il suo prossimo e con Dio, le sue intenzioni di miglioramento.
Nella Torà, (Levitico 23:23,24) il primo giorno del mese di Tishrì è designato come “giorno di astensione dal lavoro, ricordo del suono, sacra convocazione”, e nuovamente in Numeri (29:1,6) è ripetuto che è “un giorno di suono strepitoso”: un altro dei nomi di questa festa è “Yom Teru’a”, giorno del suono dello Shofar, il grande corno. In ottemperanza al comando biblico in questo giorno viene suonato lo Shofar, simbolo del richiamo all’uomo verso il Signore. Questo suono serve a suscitare una rinascita spirituale e a portare verso la teshuvà, il pentimento, il ritorno verso la giusta via. Lo Shofar, oltre a chiamare a raduno, ricorda l’episodio biblico del “sacrificio” di Isacco, sacrificio in realtà mai avvenuto in quanto fu sacrificato un montone al posto del ragazzo. Il corno deve essere di un animale ovino o caprino in ricordo di questo episodio. Inoltre lo shofar ricorda il dono della Torà nel Sinai che era accompagnato da questo suono e allude anche al Grande Shofar citato in Isaia (27:13) “E in quel giorno suonerà un grande shofar”, annunciatore dei tempi messianici.
I suoni che vengono emessi da questo strumento sono di diverso tipo: note brevi, lunghe e interrotte; secondo una interpretazione esse sono emesse in onore dei patriarchi Abramo, Isacco e Giacobbe.
Rosh Ha-Shanà è chiamato anche Giorno del Ricordo, infatti la tradizione vuole che Dio proprio in questa data abbia finito la Sua opera di creazione e sarebbe stato creato Adamo, il primo uomo.
Un uso legato a questa giornata vede l’ebreo recarsi verso un corso d’acqua o verso il mare e lì recitare delle preghiere e svuotarsi le tasche, atto che rappresenta simbolicamente il disfarsi delle colpe commesse e un impegno simbolico a rigettare ogni cattivo comportamento, come scritto nel libro biblico di Michà : “Getterai i nostri peccati nelle profondità del mare”.
Gli ebrei azkenaziti in questo giorno vestono di bianco, simbolo di purezza e rinnovamento spirituale. Anche i rotoli della Torà e l’Arca vengono vestiti di questo colore. Quest’usanza può essere ricondotta al verso di Isaia (1:18) in cui è scritto: “quand’anche i vostri peccati fossero come lo scarlatto, diverranno bianchi come la neve”.
A Rosh Ha-Shanà si usa mangiare cibi il cui nome o la cui dolcezza possa essere ben augurante per l’anno a venire. Il pane tipico della festa assume una forma rotonda, a simbolo della corona di Dio e anche della ciclicità dell’anno. Con l’augurio che l’anno nuovo sia dolce, si usa mangiare uno spicchio di mela intinta nel miele. Si usa anche piantare dei semini di grano e di granturco che germoglieranno in questo periodo, in segno di prosperità. 

  

Il giorno dell’espiazione

Il dieci del mese di Tishrì cade lo Yom Kippur, giorno considerato come il più sacro e solenne del calendario ebraico.
E’ un giorno totalmente dedicato alla preghiera e alla penitenza e vuole l’ebreo consapevole dei propri peccati, chiedere perdono al Signore. E’ il giorno in cui secondo la tradizione Dio suggella il suo giudizio verso il singolo. Se tutti i primi dieci giorni di questo mese sono caratterizzati dall’introspezione e dalla preghiera, questo è un giorno di afflizione, infatti in Levitico 23:32 è scritto “voi affliggerete le vostre persone”. E’ un giorno di digiuno totale, in cui ci si astiene dal mangiare, dal bere e da qualsiasi lavoro o divertimento e ci si dedica solo al raccoglimento e alla preghiera; il digiuno che affligge il corpo ha lo scopo di rendere la mente libera da pensieri e di indicare la strada della meditazione e della preghiera.
Prima di Kippur si devono essere saldati i debiti morali e materiali che si hanno verso gli altri uomini. Si deve chiedere personalmente perdono a coloro che si è offesi: a Dio per le trasgressioni compiute verso di Lui, mentre quelle compiute verso gli altri uomini vanno personalmente risarcite e sanate.
Ci si deve avvicinare a questo giorno con animo sereno e fiduciosi che la richiesta di essere iscritti da Dio nel “Libro della vita”, sarà esaudita. La purezza con cui ci si avvicina a questa giornata da alcuni è sottolineata dall’uso di vestire di bianco.
E’ chiamato anche “Sabato dei sabati”, ed è l’unico tra i digiuni a non essere posticipato se cade di sabato.
Kippur è forse la più sentita tra le ricorrenze e anche gli ebrei meno osservanti in questo giorno sentono con più forza il loro legame con l’ebraismo. Un tempo, gli ebrei più lontani venivano detti “ebrei del Kippur” perché si avvicinavano all’ebraismo solo in questo giorno.
L’assunzione della responsabilità collettiva è un altra delle caratteristiche di questo giorno: in uno dei passi più importanti della liturgia si chiede perdono dicendo “abbiamo peccato, abbiamo trasgredito….”. La liturgia è molto particolare e inizia con la commovente preghiera di Kol Nidrè, nella quale si chiede che vengano sciolti tutti i voti e le promesse che non possono essere state mantenute durante l’anno.
Questa lunga giornata di 25 ore viene conclusa dal suono dello Shofàr, il corno di montone, che invita di nuovo al raccoglimento, e subito dopo dalla cerimonia di “separazione” dalla giornata con cui si inizia il giorno comune.

 

La festa delle capanne

La festa di Sukkoth inizia il 15 del mese di Tishrì. Sukkoth in ebraico significa “capanne” e sono appunto le capanne a caratterizzare questa festa gioiosa che ricorda la permanenza degli ebrei nel deserto dopo la liberazione dalla schiavitù dall’Egitto: quaranta anni in cui abitarono in dimore precarie, accompagnati però, secondo la tradizione, da “nubi di gloria”.
Nella Torà (Levitico, 23, 41-43) infatti troviamo scritto: “E celebrerete questa ricorrenza come festa in onore del Signore per sette giorni all’anno; legge per tutti i tempi, per tutte le vostre generazioni: la festeggerete nel settimo mese. Nelle capanne risiederete per sette giorni; ogni cittadino in Israele risieda nelle capanne, affinché sappiano le vostre generazioni che in capanne ho fatto stare i figli di Israele quando li ho tratti dalla terra d’Egitto”.
La festa delle capanne è una delle tre feste di pellegrinaggio prescritte nella Torà, feste durante le quali gli ebrei dovevano recarsi al Santuario a Gerusalemme, fino a quando esso non fu distrutto dalle armate di Tito nel II secolo e.v. Altri nomi della festa sono “Festa del raccolto” e anche “Festa della nostra gioia”, poiché cade proprio in coincidenza con la fine del raccolto quando si svolgevano grandi manifestazioni di gioia. Questa festa è detta anche “festa dei tabernacoli” e il precetto che la caratterizza è proprio quello di abitare in capanne durante tutti i giorni della festa. Se a causa del clima o di altri motivi non si può dimorare nelle capanne, vi si devono almeno consumare i pasti principali. Altri nomi della festa sono “Festa del raccolto” e anche “Festa della nostra gioia”, poiché cade proprio in coincidenza con la fine del raccolto quando si svolgevano grandi manifestazioni di gioia.
La capanna deve avere delle dimensioni particolari e deve avere come tetto del fogliame piuttosto rado, in modo che ci sia più ombra che luce, ma dal quale si possano comunque vedere le stelle. E’ uso adornare la sukkà, la capanna, con frutta, fiori, disegni e così via.
La sukkà non è valida se non è sotto il cielo: l’uomo deve avere la mente e lo spirito rivolti verso l’alto.
Un altro precetto fondamentale della festa è il lulàv: un fascio di vegetali composto da un ramo di palma, due di salice, tre di mirto e da un cedro che va agitato durante le preghiere. Forte è il significato simbolico del lulàv: la palma è senza profumo, ma il suo frutto è saporito; il salice non ha né sapore né profumo; il mirto ha profumo, ma non sapore ed infine il cedro ha sapore e profumo. Sono simbolicamente rappresentati tutti i tipi di uomo: tutti insieme sotto la sukkà. Secondo un’altra interpretazione simbolica la palma sarebbe la colonna vertebrale dell’uomo, il salice la bocca, il mirto l’occhio ed infine il cedro il cuore. L’uomo rende grazie a Dio con tutte le parti del suo essere.
L’uomo è disposto a mettersi al servizio di Dio anche nel momento in cui sente che massima è la potenza che ha raggiunto: ha appena raccolto i frutti del suo raccolto, ma confida nella provvidenza divina e abbandona, anche se solo per pochi giorni, la sua dimora abituale per abitare in una capanna. Capanna che è insieme simbolo di protezione, ma anche di pace fra gli uomini. “E poni su di noi una sukkà di pace” riecheggiano infatti i testi di numerose preghiere; ci sono dettagliate regole che stabiliscono l’altezza massima e minima che deve avere una sukkà, ma per quanto concerne la larghezza viene stabilita solo la dimensione minima: nei tempi messianici infatti la tradizione vuole che verrà costruita una enorme unica sukkà nella quale possa risiedere tutta l’umanità intera.
 

La gioia della Torà

L’ultimo giorno della festa di Sukkoth si chiama Oshanà rabbà (grande invocazione di salvezza dal significato letterale: Deh, salvaci). Il periodo di pentimento si conclude definitivamente con questo giorno. Il perdono che ci verrà accordato viene invocato battendo i rami di salice durante una suggestiva cerimonia, cerimonia durante la quale si compie anche per sette volte un giro intorno alla Torà, con in mano il lulav. Secondo alcuni lo scuotimento dei rametti di salice rappresenta la pioggia, simbolo di prosperità. Il segnale è la fine del male, come premessa dell’era messianica. Alcuni conservano i rametti del salice per la cerimonia che si tiene subito prima di Pesach, la Pasqua ebraica, durante la quale si bruciano le rimanenze dei cibi lievitati.
Sheminì ‘Azzeret (il significato di queste parole è “ottavo giorno di radunanza”) è l’ultimo giorno in cui si usa andare nella capanna, tuttavia senza recitare le benedizioni. Nel passo della Bibbia in cui si parla di Sukkoth (Levitico 23) la durata della ricorrenza è fissata in sette giorni. Si parla poi di un “ottavo giorno di radunanza”: Sheminì Azzaret. Quasi un prolungamento della festa.
In questo giorno durante il servizio di Mussaf viene introdotta la formula “che fai soffiare il vento e scendere la pioggia”. Tale formula verrà mantenuta nell’Amidà (preghiera che si recita a voce bassa) fino alla festa di Pesach, la Pasqua ebraica.
Il giorno successivo è Simchàt Torà, giorno particolarmente lieto, come indicato dal nome stesso: la “gioia della Torà”. La lettura della Torà, da cui vengono pubblicamente letti e recitati dei brani ogni settimana durante tutto il corso dell’anno, in questo giorno trova insieme conclusione e principio del ciclo: viene infatti letto l’ultimo brano e si ricomincia con il primo brano. In questo modo la lettura della Torà mantiene la sua continuità nel tempo. Le persone che in questo giorno sono chiamate alla lettura, sono considerate come “sposi” della Torà e di Bereshith (la parola con cui inizia la Torà) e come sposi vengono festeggiati da parenti e amici. In alcune comunità gli “sposi” offrono confetti a parenti e amici.
Durante i sette giri che si compiono nella sinagoga, con i rotoli della Torà sulle braccia, spesso la gioia che si manifesta stride con l’austerità del luogo: le donne gettano caramelle verso la folla festante che spesso danza intorno alla Torà.

La festa delle luci

Chanukkà nel calendario autunnale è preceduta da circa due mesi in cui non c’è alcuna ricorrenza, a parte il sabato e i capomese. Probabilmente anche per questo l’atmosfera è particolarmente allegra e i bambini la aspettano con ansia.
La festa di Chanukkà, tra tutte le antiche ricorrenze ebraiche, è l’unica che non affondi in qualche modo le sue radici nella Bibbia e nei suoi racconti; è una festa stabilita dai Maestri del Talmud e ricorda un avvenimento accaduto in terra di Israele, nel 168 a.e.v.
Antioco Epifane di Siria – ottavo re della dinastia seleucide, erede di una piccola parte dell’Impero appartenuto ad Alessandro Magno – voleva imporre la religione greca alla Giudea. Le mire di ellenizzazione furono contrastate e impedite da Mattatià, un sacerdote di Modiin della famiglia degli Asmonei che insieme ai suoi sette figli, diedero avvio alla rivolta.
Chanukkà è conosciuta anche come la festa del miracolo dell’olio: quando dopo una strenua battaglia, il 25 di Kislev di tre anni dopo (165 a.e.v.), il Tempio fu riconquistato, si doveva procedere alla riconsacrazione. Nel Tempio però fu trovata una sola ampolla di olio puro recante il sigillo del Sommo Sacerdote. Per la preparazione di olio puro (viene considerato olio puro quello raccolto dalle prime gocce della spremitura delle olive) occorrevano otto giorni. Nel trattato talmudico di Shabbat (21b) leggiamo del grande miracolo che occorse: l’olio che poteva bastare per un solo giorno, fu sufficiente per otto giorni, dando così la possibilità ai Sacerdoti di prepararne dell’altro nuovo. In ricordo di quel miracolo, i Saggi del Talmud istituirono una festa di lode e di ringraziamento al Signore che dura appunto 8 giorni: Chanukkà che letteralmente, significa “inaugurazione”.
La prima sera della festa si accende un lume su un candelabro speciale a nove bracci, e ogni sera, per otto giorni, se ne aggiunge uno in più, fino a che l’ottava sera si accendono 8 lumi. Questo candelabro si chiama Chanukkià e può avere diverse forme. L’indicazione è che gli otto contenitori per le candele siano tutti allineati alla stessa altezza e che il nono – lo shammash, il servitore, quello che serve per accendere gli altri lumi – sia in una posizione diversa.
I bambini ricevono regali e in particolare delle trottoline su cui compaiono le iniziali delle parole “Un grande miracolo è avvenuto lì”.
Uno dei precetti relativi alla festa è quello di “rendere pubblico il miracolo”, per questo si usa accendere i lumi al tramonto o più tardi, quando c’è ancora gente nelle vie, vicino alla finestra che si affaccia sulla strada, al fine di rendere pubblico il miracolo che avvenne a quel tempo. Negli ultimi anni nelle grandi piazze di alcune città italiane, si issa un’enorme Chanukkià i cui lumi vengono accesi in presenza di numerosi intervenuti.

Il capodanno degli alberi

Molte fra le ricorrenze ebraiche servono a ricordare i cicli naturali. Una festività particolare, totalmente dedicata agli alberi è il Capodanno degli alberi, Rosh Ha-Shanà Lailanot, conosciuta anche con la data ebraica in cui cade: Tu bi-Shevat, cioè quindici del mese di Shevat. In ebraico ogni lettera ha anche un valore numerico e Tet e Vav che formano la parola “Tu” equivalgono numericamente a 15. Tu bi-Shevat cade in giorni in cui il clima è particolarmente freddo; in Israele, dove in genere il clima è meno freddo, questo giorno viene indicato come il giorno in cui cominciano a fiorire i mandorli, e si può cominciare a sperare in un prossimo arrivo della primavera.
Questa festa è menzionata nel Talmud, e dà adito a una delle innumerevoli dispute tra Maestri. Sulla data in cui festeggiare Tu bi-Shevat si confrontano le due grandi scuole dei due grandi Maestri: Shammai e Hillel. Secondo l’opinione del primo il Capodanno degli alberi doveva essere festeggiato il primo giorno del mese di Shevat, mentre nell’opinione di Hillel doveva essere festeggiata il 15. Come noto in questa e in molte altre controversie si segue l’opinione di Bet Hillel. Interessante sottolineare come i due punti di vista, comunque, siano specchio di una diversa e contrapposta concezione tra potenza e atto: la scuola di Shammai ritiene che vadano prese in considerazione le cose già in “potenza”, mentre quella di Hillel considera solo ciò che è in “atto”. Nello specifico il problema è se considerare già germoglio ciò che ancora non è visibile, ma esiste solo in potenza. Un po’ come in certe culture si contano gli anni fino dal momento del concepimento e non da quello della nascita. Sempre a proposito di nascite ed alberi, nella tradizione ebraica quando nasce un bambino si usa piantare un albero. A tempo debito, i rami di quello stesso albero serviranno per costruire la chuppà, cioè il baldacchino nuziale.
In passato la ricorrenza serviva a determinare quali decime dovessero essere presentate al Santuario in un anno: i frutti maturati prima del 15 di Shevat si considerano appartenenti ad un anno, quelli maturati dopo questa data, si considerano appartenenti all’anno seguente. Inoltre questa festività serviva a stabilire quando erano trascorsi i primi tre anni di vita dell’albero, nel corso dei quali era proibito goderne i frutti.
Questa festività è molto amata dai bambini ed in Israele si vedono intere scolaresche armate di picconi in miniatura che eccitati mettono a dimora nella terra ciascuno il suo alberello. Ma si usa anche mangiare un frutto “nuovo” e si fa il Seder Tu Bi-Shevat, una sorta di pasto a base di frutta, durante il cui svolgimento, così come si fa nel più noto Seder di Pesach, si leggono brani della tradizione e si recitano particolari preghiere.

La festa delle sorti

Purim, la più gioiosa tra le festività ebraiche, è la festa più amata dai bambini. Cade a metà del mese ebraico di Adar e ricorda il sovvertimento delle sorti e il conseguente scampato pericolo per il popolo ebraico.
La storia di Purìm (in ebraico Purim significa “sorti”) accaduta circa 2500 anni fa, ci viene raccontata nella Meghillàth Estèr, il Libro di Ester, libro che fa parte del canone biblico e che in questa occasione si legge pubblicamente.
La storia che viene narrata in breve è la seguente: Assuero, re di Persia e di Media, regnava su 127 province, era un sovrano molto potente ed aveva accanto a sé una moglie che però (essendosi rifiutata di partecipare ad un banchetto fatto preparare dal re e a cui erano stati invitati le persone più importanti del regno) venne ripudiata. Vennero quindi convocate le più belle ragazze del paese e fra queste fu scelta una ragazza ebrea, Estèr che andò così in sposa ad Assuero. Ester divenne la nuova regina e nella storia avrà un importante ruolo: difatti Hamàn, primo Ministro del re Assuero, chiese ed ottenne dal re che tutti gli ebrei del regno fossero uccisi, in un giorno che sarebbe stato tirato a sorte (pur). Fu così tirato a sorte il 13 di Adar. Quando Mordekhài, zio della regina lo seppe, si rivolse ad Ester perché intercedesse. Ester informò il re sulle malvagie macchinazioni e supplicò di salvare il suo popolo e lei stessa, in quanto ebrea. Per merito della regina gli ebrei, con l’aiuto del Signore, riuscirono a salvarsi.
Assistere alla lettura del Libro di Ester è uno dei precetti della festa. In questo giorno si devono anche fare doni ai bisognosi, inviare dei cibi a due persone diverse, partecipare ad un banchetto festivo.
Negli anni embolismici (con un mese in più) Purìm viene festeggiato in Adàr Shenì perché l’intervallo, fra questa festa e Pésach, deve essere di circa trenta giorni.
Il giorno 13 è giorno di digiuno in ricordo del digiuno fatto da Estèr per invocare l’aiuto del Signore. 

 

Il giorno dell’indipendenza

Il 5 del mese di Iyar, durante il periodo dell’Omer, si celebra la ricorrenza della fondazione dello Stato di Israele, in ebraico Yom Ha hazmaut. In questo giorno nel 1948 fu firmata la dichiarazione d’Indipendenza. Dopo duemila anni di esilio, si è realizzata l’aspirazione degli ebrei di avere uno Stato proprio. E’ giorno di festa sia in Israele che nella Diaspora.

La festa delle settimane

Shavuot cade il 6 e il 7 di Sivan, esattamente sette settimane dopo Pesach. Fino a quando non fu stabilita la durata precisa dei mesi la ricorrenza poteva cadere il 5, il 6 o il 7 del mese, fatto unico per le ricorrenze comandate nella Torà. Shavuot è chiamata anche “Tempo del dono della nostra Torà”. La Torà è per gli ebrei il dono più grande fatto da Dio all’uomo, il legame con essa è fortissimo e ha un valore di sacralità. Questo spiega anche perché la data precisa non avesse troppa importanza: la cosa fondamentale è la rivelazione della Torà, il legame con una data storica riveste una importanza secondaria.
Gli ebrei dopo essere rimasti schiavi in Egitto, finalmente liberi, trascorsero 40 anni nel deserto; quando furono ai piedi del Monte Sinai Mosè, loro capo, salì sul monte dove ricevette in dono da Dio la Torà da consegnare al popolo d’Israele. Le Leggi contenute nella Torà sono ancora oggi la base e il cemento del popolo ebraico. Così come Pesach rappresenta il raggiungimento della libertà materiale; questa festa rappresenta il raggiungimento della libertà spirituale, la libertà di scegliere di accettare la legge morale, di accettare il giogo divino.
Shavuot è una delle tre feste di pellegrinaggio, cioè una festa durante la quale ci si doveva recare al Santuario a Gerusalemme (ai tempi in cui ancora esisteva) e portare un’offerta, secondo il dettato che si trova in Esodo XXIII, 16: “Conterete cinquanta giorni fino all’indomani della settima settimana ed allora presenterete al Signore un’offerta farinacea nuova (di frumento nuovo)”.
A Shavuot ci si reca alla Sinagoga, dove vengono utilizzati degli addobbi particolarmente sontuosi e il profumo dei fiori che vengono portati per l’occasione rende particolarmente gradevole la atmosfera. Le piante e i fiori che si usano per addobbare le case e le sinagoghe probabilmente rimandano al luoghi lussureggiante nel deserto in cui fu ricevuta la Torà.
In Italia a Shavuot molte bambine celebrano il loro bat Mizwa, cerimonia attraverso la quale diventano “adulte” e in grado di adempiere ai precetti che riguardano le donne.
Il pasto di Shavuoth è a base di latte. (Le regole alimentari ebraiche, in osservanza al divieto biblico “non mangerai il pretto nel latte di sua madre” vietano di mangiare nello stesso pasto carne di qualsiasi genere e di cibi derivati da latte). Le origini di questa usanza possono essere diverse, le più accreditate sono due: il sapore della Torà viene paragonato a quello del latte e del miele. La seconda ipotesi è che gli ebrei non avendo ancora ricevuto la Legge, non erano in grado di procedere alla macellazione rituale degli animali, per cui si astenevano dal mangiare la carne.
Dopo la cena della vigilia, molti usano studiare la Torà per tutta la notte. Il secondo giorno di Shavuot si legge il libro di Ruth, libro facente parte del canone biblico, nel quale viene narrata la storia di Ruth la moabita, della sua conversione all’ebraismo, conversione alla quale arrivò attraverso tappe spirituali paragonabili a quelle del popolo ebraico. Ruth è un’antenata del re David, e in quanto tale il Messia nascerà dalla sua progenie.

Digiuno del 9 di Av

Il 9 del mese di Av per gli ebrei è giorno di lutto e di digiuno. In questa data a distanza di molti secoli furono distrutti sia il primo che il secondo Santuario. Il primo Santuario fu distrutto nel 586 prima dell’era volgare ad opera dei babilonesi e il secondo ad opera dei romani nel 70 e.V. Il Santuario di Gerusalemme era il luogo dove si svolgevano le cerimonie rituali prescritte nella Torà;era il centro spirituale e anche politico e religioso dell’ebraismo; la perdita del Santuario segnò anche la perdita di questo centro, oltre che l’inizio della diaspora. La distruzione del Santuario è presente nel cuore degli ebrei anche dopo venti secoli: nelle preghiere, in qualsiasi parte del mondo ci si trovi, ci si rivolge sempre fisicamente e idealmente verso le vestigia del Muro occidentale. Tishà Be-Av significa 9 del mese di Av. Questa data, divenuta simbolo di disgrazia per il popolo ebraico segna anche altri momenti tragici: proprio il nove di Av gli ebrei furono cacciati dalla Spagna nel 1492.
Nelle sinagoghe parate a lutto e in un’atmosfera di grande tristezza, spesso seduti in terra e a lume di candela, si recitano preghiere ed elegie ispirate alla rovina del Tempio di Gerusalemme e all’esilio del popolo ebraico.
Secondo la tradizione ebraica nella distruzione già ci sono i semi della redenzione e proprio in questa data, simbolo di distruzione, verrà al mondo il Messia: in questa giornata si usano dei libri liturgici particolari che molti usano gettar via alla fine della ricorrenza, come segno di cieca fiducia nell’avvento messianico. Avranno la gioia di vedere Gerusalemme ricostruite solo coloro che abbiano partecipato alle manifestazioni di lutto che si tengono a Tishà Be-Av.

Il 15 di Av, festa agricola

Tu be-Av – festa agricola e dell’amore – affonda le sue radici ancora prima dei tempi del Talmud e cade il 15 (in ebraico le lettere Tet e Vav che formano la parola “Tu” equivalgono numericamente a 15) del mese di Av, il penultimo mese del calendario ebraico. Tu be-Av è l’ultima festività dell’anno ebraico.
Era questa l’ultima data utile per tagliare la legna che sarebbe poi servita per cucinare, per costruire case, per riscaldare e per i sacrifici; da quel momento in poi si doveva dare agli alberi e alla natura un periodo di riposo, fino all’inizio del mese di Nissan, il mese della primavera. Da notare anche che Tu be-Av cade esattamente sei mesi prima di Tu bi-Shevat (il capodanno degli alberi, giorno in cui si usa piantare alberi e che si celebra il 15 del mese di Shevat).
Anticamente era fissata in questo giorno la festa della fine della vendemmia. Ancora oggi molti Kibbutzim in questa data festeggiano nelle vigne questa suggestiva ricorrenza e si organizzano feste e giochi.
Sempre in questa data venne stabilito che le figlie di una tribù avrebbero potuto sposare i ragazzi appartenenti a una tribù diversa. Questo giorno venne scelto – secondo quanto ci racconta il Talmud – per riconciliare le famiglie che erano in lite. Al Cairo si usa offrire la dote e far sposare in questo giorno 5 fanciulle, estratte a sorte tra le ragazze ebree meno abbienti.
Tanto è antica questa festività, che nessun Maestro poté stabilirne con esattezza le motivazioni. E’ comunque nel Talmud che troviamo vivaci descrizioni del modo di festeggiare: in questo giorno le ragazze scendevano nelle vigne e danzavano. Indossavano tutte un vestito bianco, prestato da un’altra ragazza. La figlia del re prestava il suo vestito alla figlia del Sacerdote, la figlia del Sacerdote alla figlia dell’aiutante, e così via, affinché “non provasse vergogna chi non lo possedeva” (Talmud Bavlì. Taanit, 31a). Tutte insieme illuminate dal bagliore della luna, danzavano nelle vigne, fuori dalle mura di Gerusalemme, risplendenti grazia e giovinezza nei loro vestiti bianchi, e invitavano i giovani che non avevano già impegnato il loro cuore a alzare gli occhi per guardarle. Le più belle invitavano a ammirare la loro bellezza, quelle provenienti da nobili famiglie invitavano a considerare la loro nobiltà e così via, fino alle meno belle e di famiglie umili, che ricordavano come la bellezza sia fugace, come una buona fama possa andare perduta e che solo una donna che teme Dio è degna di lode.
I giovani le seguivano, con la speranza di trovare una sposa, e così si innamoravano e si celebravano i fidanzamenti. In perfetta armonia con il clima d’amore e di poesia del Cantico dei Cantici.

Il 10 di Tevet

Il 10 di Tevet ricorda l’inizio dell’assedio di Gerusalemme da parte dei Babilonesi. Dopo la Shoà è un giorno che il rabbinato ha dedicato alla memoria dei deportati. E’ digiuno dall’alba al tramonto.

Il 17 di Tammùz

A questa data si associano diverse sciagure: secondo l’esegesi in questa data Mosè vedendo gli ebrei danzare intorno al vitello d’oro spezzò le tavole della Legge. Inoltre Nabucodonosor nel 586 a.e.V. distrusse le mura di Gerusalemme. Un episodio analogo si verificò nel 70 e.V., durante l’assedio dell’esercito di Tito. Sempre in questa data in epoca romana dovettero essere sospesi i sacrifici che si tenevano nel Santuario. Le tre settimane che vanno da questa data a Tishà Be-Av sono considerate periodo di lutto durante le quali sono proibiti i matrimoni e le manifestazioni gioiose.
Il digiuno dura dall’alba al tramonto.

Il digiuno di Ester

Il giorno che precede Purim, la festa delle sorti, si usa digiunare, in ricordo del digiuno che fece la regina Ester prima prima di intercedere presso il re.

Il digiuno di Ghedalià

Il 3 di Tishrì cade il digiuno di Ghedalià, governatore di Gerusalemme dopo la distruzione del primo Tempio. Fu ucciso in una congiura e la sua morte determinò la fine totale dell’autonomia che Nabucodonosor, re di Babilonia, aveva lasciato.

Il digiuno dei Primogeniti

Il 14 di Nissàn i primogeniti usano digiunare, in ricordo della morte dei primogeniti d’Egitto. Sono esenti dal digiuno coloro che partecipano ad una Seudat Mitzvà, pasto rituale che si tiene in occasione di un matrimonio, o di una circoncisione o per la conclusione di un importante ciclo di studi.



FONTE: www.ucei.it




Condividi con:
Comments are closed.